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Il bollitore 9093 di Michael Graves

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“Una sofisticata sperimentazione di architettura e design”, così Alessandro Mendini, allora direttore artistico di Alessi, definì il progetto Tea & Coffee Piazza, in cui 11 “architetti puri”, che non si erano mai cimentati con l’industrial design, vennero invitati a progettare una sorta di “paesaggio casalingo”, ovvero sevizi da tè e da caffè, in cui la teiera, la lattiera e la zuccheriera comparivano quali edifici in miniatura, ospitati su un vassoio che fungeva da minuscola piazza. Ne nacquero undici set in argento che vennero prodotti in un’edizione limitata di 99 esemplari ciascuno. 

Così, in proposito, Mendini: “Ho sempre pensato che l’interazione fra le discipline omologhe sia non solo una ginnastica, ma anche un metodo molto utile per l’ossigenazione del loro divenire. In particolare fra l’architettura (grande) e il design (piccolo), l’idea di lavorare sul paradosso fra le misure, sul cambiamento vertiginoso di scala e sull’incrocio di funzioni tra loro lontane.”

Il progetto, realizzato nell’arco temporale compreso fra il 1979 e il 1983, vide all’opera: Michael Graves, Hans Hollein, Charles Jencks, Richard Meier, lo stesso Mendini, Paolo Portoghesi, Aldo Rossi, Stanley Tigerman, Oscar Tusquets, Robert Venturi, e Kazumasa Yamashita. Culla dell’esperimento fu la neonata Officina Alessi, che aveva in Ettore Sottsass il proprio coordinatore d’immagine. 

Nell’introduzione al catalogo dell’omonima mostra in cui si presentavano al pubblico i risultati della ricerca, Mendini ne descrisse l’ambito come “un luogo molto libero di ricerca linguistica, da offrire ad architetti e designer, dove elaborare e proporre metodi, forme e tipologie sperimentali nel vivo dell’attuale dibattito sul neo e post modernismo, e sulle istanze del nuovo design italiano e internazionale”. 

 

La mostra si tenne tra l’ottobre e il novembre 1983 in contemporanea in due sedi: a Milano nell’ex chiesa di San Carpoforo, con l’allestimento di Hans Hollein (un grande muro a campate, riecheggiante gli acquedotti romani antichi, divenuto un must) e la curatela dello stesso Mendini; e a New York, alla Galleria Max Protetch. Per sondare la reazione del pubblico e della critica vi erano però già state alcune anteprime, che avevano riscosso un notevole successo sia di pubblico che di critica, e precisamente: nel 1982 ad Hannover, con il titolo: “Provokationen, Design aus Italien ein Mythos Geht neue Wege”; a Zurigo, nei primi mesi del 1983, intitolata: “Design-Formgebung für Jedermann. Typen und Prototypen” e un’altra a Todi. L’unanime favore accordato alle anteprime fu confermato anche alle mostre di Milano e di New York, arrivando ad innescare uno stimolante ed efficace dibattito in seno al mondo del design, in parte concernente il ricorso al linguaggio postmoderno, ma soprattutto relativo al concetto di multiplo d’arte, ovvero di oggetto d'uso “firmato", che interessò tutto l’arco degli anni ottanta e i prodromi del decennio successivo.

 

A sinistra: il catalogo della mostra Tea & Coffee Piazza, progettato da Bruno Munari con foto di Aldo Ballo. La mostra si è tenuta a Milano presso la chiesa di San Carpoforo, nel 1983; a destra: il biglietto d’invito.


L’evento generò emuli illustri, infatti sia Knoll che Rosenthal Studio-line Einrichtung, negli stessi anni ottanta, chiamarono a raccolta un pool di architetti famosi (tra cui molti italiani, quali: Gae Aulenti, Cini Boeri, Angelo Mangiarotti, Vico Magistretti, Lella e Massimo Vignelli ed altri) a disegnare tavoli, sedie e divani per i loro marchi. Purtroppo questo esperimento ha avuto una messa in produzione piuttosto rapsodica, cosicché, sebbene i progetti fossero tutti di elevata qualità, soltanto pochissimi sono stati realizzati e sono quindi noti (come ad esempio la sedia Pan di Magistretti). Ne parlo con cognizione di causa, essendone stata personalmente testimone, in quanto la maggior parte dei prototipi furono realizzati nella bottega di mio padre. Alcuni di questi ultimi, con relativa documentazione, si trovano oggi conservati presso gli Archivi Storici del Politecnico di Milano, altri sono emigrati negli USA per essere esposti in un museo in corso di realizzazione dedicato alla figura di Pierluigi Ghianda.

 

A sinistra: Triennale di Milano, aprile-maggio 2003, la mostra “Tea & Coffee Towers” allestita da Hans Hollein con la curatela di Alessandro Mendini ha presentato al pubblico 22 servizi da te e caffè disegnati da altrettanti architetti provenienti da 10 nazioni. A destra: il catalogo in due DVD della rassegna, contenente le interviste ai protagonisti, edito da Corraini.


A vent’anni dalla sua prima esposizione al pubblico, il progetto Tea & Coffee Piazza, trasformatosi nel percorso metaprogettuale “Tea & Coffee Towers”, teso a favorire l'interazione tra le due discipline di architettura e design, fu ripresentato alla Triennale di Milano (9 aprile - 4 maggio 2003), allargato alla partecipazione di 22 architetti provenienti da 10 nazioni (William Alsop, Wiel Arets, MVRDV, Gary Chang, UN STUDIO, Greg Lynn Form, Thom Mayne Morphosis, Tom Kovac, Deszö Ekler, Toyo Ito, Doriana e Massimiliano Fuksas, Dominique Perrault, Future Systems, Juan Navarro Baldeweg, Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, David Chipperfield, Alessandro Mendini), con catalogo in DVD edito da Corraini, contenente le interviste ai progettisti intervenuti. 

Per rispettare la tradizione, l’anno precedente vi era già stata un’anteprima, nientemeno che alla Biennale di Venezia, diretta da Deyan Sudjic. In quell’occasione furono esposti al pubblico 20 progetti di servizi da te e caffè oltre ad otto modelli in scala 1:100 di edifici a torre alti cento piani. 

L’allestimento in Triennale venne di nuovo affidato ad Hans Hollein, che ripropose, ovviamente con le dovute modifiche per adattarlo alla sede diversa, quello storico del 1983: un lungo muro bianco con vetrine ad arco illuminate da neon azzurri. La curatela della mostra e il coordinamento del progetto furono ancora di Alessandro Mendini che ha dichiarato: “Il senso della costruzione e della composizione architettonica da un lato, e della simbologia e del rituale casalingo dall’altro, sono stati la base su cui sia gli 11 autori della prima edizione del Tea & Coffee Piazza, sia i 22 attuali hanno elaborato i loro progetti per Tea & Coffee Tower”.

 

 

Michael Graves, Tea & Coffee Piazza per Alessi, 1979.


Proprio in questo clima ha avuto origine la collaborazione di Michael Graves (1934 - 2015) con Alessi, che iniziata nel 1979, in occasione di “Tea & Coffee Piazza”, è continuata con la creazione di altri oggetti, tra cui, nel 1985 quella di un pezzo che si è fatto immediatamente notare ottenendo fin dal suo apparire sul mercato un largo consenso di pubblico. Si tratta del noto bollitore 9093, quello con l’uccellino rosso che twitta (ante litteram) non appena l’acqua inizia a bollire.

Realizzato in acciaio inox lucido, in una forma troncoconica con rastrematura a 45° e manico circolare in tondino d'acciaio con salvamano in materiale plastico (PA) azzurro, è immediatamente assurto ad icona del linguaggio postmoderno progettuale, di cui Michael Graves è stato uno dei più insigni protagonisti con la sua inconfondibile architettura. Nella forma del 9093, infatti, si fondono in un perfetto ed equilibrato connubio, non privo di una certa dose di ironia, echi Art Déco e reminiscenze dell'arte precolombiana a suggestioni della Pop Art e del lessico dei cartoon. Ed è proprio da questa gradevole contaminazione linguistica che trae origine il successo di questo bollitore, che se pure di forma inconsueta, finisce per avere qualcosa di piuttosto familiare ma soprattutto di accattivante che lo rende simpatico d'acchito.

 

 

Due disegni di Michael Graves del bollitore 9093. A destra: Monica Bellucci in una pubblicità per il 9093 di Alessi, tratta da una brochure progettata dallo Studio Sottsass Associati, 1990 circa.


Per celebrare i trent'anni di successi del suo bollitore 9093, divenuto un best-seller, Michael Graves ha progettato una variante del mitico uccellino, mutatosi per l’occasione in Tea Rex, ovvero in un drago color vede giada che, nella cultura cinese, molto cara al progettista, è simbolo di forza e di fortuna.

 

Per saperne di più: il postmodernismo in architettura è una tendenza nata in America agli albori degli anni Sessanta che professa un deliberato rifiuto sia della critica all’ornamento predicata dall'architettura moderna, che della sua assenza di cromatismo, nonché del funzionalismo e delle forme pure proprie del razionalismo, rimpiazzate da un disinvolto repêchage di altre forme policrome liberamente desunte – ovvero in modo acritico e astorico – dall’architettura di ogni epoca e di ogni cultura, ironicamente combinate tra loro in un intenzionale paradosso.

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Dieci oggetti per l'estate
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Una sofisticata sperimentazione di architettura e design
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Maria in giardino?

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Lo so, vi piace la Maria (Cannabis sativa) e vi piacerebbe tenerla in giardino, anche solo per ragioni ornamentali, per quelle foglie diventate iconiche del ribellismo anni sessanta e settanta. Ora si può, purché siano piante con innocui livelli di Thc (tetraidrocannabinolo) e acquistate da coltivatori in regola con le disposizioni di legge. Tuttavia è fenomeno di nicchia, potreste trovarla in quel di Mantova, nei vivai di Canneto sull’Oglio (e ci mancherebbe! nomen omen), ma non figura rubricata dai cataloghi dei vivaisti di erbacee più rinomati.

 

 

Destino singolare quello della canapa. Prima del proibizionismo, l’Italia era seconda solo alla Russia nella coltivazione, che alimentava le imprese tessili e aveva le sue capitali produttive in Napoli e Bologna (le famose tele di Romagna con le tradizionali stampe color ruggine). C’è chi, favolosamente, vi riconduce persino l’etimo del toponimo Canavese.

 

 

Certo è che anche in quest’area di Piemonte, tra la Serra d’Ivrea e la Dora, la canapa era coltura antica: sul castello di Masino ancora svetta lo stemma della potente famiglia Valperga, «fasciato di oro e di rosso, alla pianta di canapa d’argento sradicata, attraversante».  

Ci riporta a quei tempi di fatiche contadine e artigianali Giovanni Pascoli, che nello struggente poemetto funebre, Il soldato di San Piero in Campo (1899), dedica una sezione sulle fasi della lavorazione di questa fibra vegetale. L’anima del giovane soldato (Aladino Mariotti, morto suicida prima d’essere congedato dal servizio militare) torna al suo paese per essere risarcita del rituale mancato, e il poeta la restituisce all’ambiente d’origine con un’ultima rievocazione della vita immersa nel ciclo naturale, scandita dai lavori stagionali individuati con provata perizia tecnico-lessicale:    

 

 

E Pensa … Dormi… È limpida la sera:

si vede sempre, e non s’accende il lume.

C’è nelle selve fumo qua, che annera,

 

là, che biancheggia: bruciano il pattume:

presto si coglie. E l’uva ingrossa, e invaia 

i chicchi già. La canapa è nel fiume.

 

È già stesa a capretta su la ghiaia,

via via: dura la tiglia, alta la canna.

Ecco che già si mazzola in qualche aia.

 

 

E se, nonostante un certo revival, la tela di canapa rimane articolo commerciale limitato, per il giardino abbiamo una soluzione facile, alla portata di tutti, che ci consente di non esibire certificati e non inciampare in noie legislative. Allo stato spontaneo c’è l’Eupatorium cannabinum che si può trovare proprio alle annuali esposizioni del verde del Castello di Masino. Il nome importante, di origine greca («nato da padre nobile»), viene dal re del Ponto Mitridate Eupatorio che, secondo la leggenda, ne avrebbe per primo scoperto le numerose proprietà medicinali (antivirali, diuretiche e depurative). Benché appartenga alla famiglia delle Asteraceae, declina nell’aggettivazione (e nel caule) la sua somiglianza con la Cannabis sativa (fam. Cannabaceae). Se avete un fazzoletto di terra a mezz’ombra, fresca e ricca, lasciatelo a quest’erbacea perenne dai fusti eretti, alti circa un metro, che s’aprono a corimbi sulla sommità. Porta belle foglie opposte o alterne, lanceolate quelle basali, divise in tre lamine dal margine seghettato-dentato quelle superiori più prossime ai corimbi di piccoli fiori tubolari, rosei e dal lungo stilo bianco. Dalla fine di luglio a ottobre si esprime in un prolungato sboccio attira farfalle, che può colorarsi di purpureo (E.maculatum Red Dwarf), d’azzurro (E. coelestinum), o di bianco, esaltato per sovrappiù da un magnifico fogliame bruno (E. rugosum rubrum). 

 

Insomma, una bella alternativa alla Maria: non ci farà volare né viaggiare in mondi paralleli, ma se non altro, fossimo ai tempi di Dante, ci risparmierebbe l’accusa di essere alle dipendenze del Veglio della Montagna che, nel suo giardino di delizie, inebriava i suoi adepti con l’hashish (da qui hashishin, assassino: «lo perfido assessin», Inf., XIX, 50).

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Cannabis sativa
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Primo maggio a Mensano

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Come si instaura una religione laica in Italia? È la domanda che sorge scorrendo le foto, bellissime, che Ferruccio Malandrini ha raccolto nel catalogo Mensano Primo Maggio. 1963-1975, in occasione di una mostra alla Biblioteca Comunale di Siena e che speriamo possa girare per l’Italia. Ne varrebbe la pena perché attraverso Mensano, una frazione di Casole d’Elsa, a quaranta chilometri da Siena, si racconta un pezzo della nostra storia.  All’inizio degli anni Sessanta stava finalmente finendo l’istituto della mezzadria che, dopo le riforme leopoldine, aveva organizzato rapporti sociali e territorio nei due secoli successivi.

 

Ph Ferruccio Malandrini.


Viene in mente l’avvocato Maralli del Giornalino di Giamburrasca: “Libero pensatore in città e bigotto in campagna”, oppure le lettere che Don Milani inviava dal podere di famiglia di Montespertoli nell’immediato dopoguerra. Un mondo, si direbbe, fermo al Medio Evo, diviso in ferree classi sociali, dove contadini, mezzadri, artigiani, lavoravano al servizio dei padroni. Dopo una fiammata prima del fascismo, furono gli anni dopo la Seconda guerra mondiale a trasformare un popolo di sudditi in cittadini. E decisiva è stata la funzione del PCI che da quelle parti arrivò a prendere oltre il 60% dei voti. Il Primo maggio, più del 25 aprile, divenne “la Pasqua laica” della popolazione, anche perché, nel calendario, arrivava alla fine dell’inverno, un momento di festa della campagna.

 

Ph Ferruccio Malandrini.


I simboli sono le bandiere rosse che si mescolano a quella italiana (la lezione di Togliatti), la banda del paese (un’eredità del nostro Risorgimento laico) che intona, insieme all’Internazionale e a Bandiera rossa, l’inno, socialista e anarchico di Pietro Gori: “Vieni o Maggio t’aspettan le genti/ ti salutano i liberi cuori/ dolce Pasqua dei lavoratori”. Una festa di resurrezione e di speranza per un popolo in cammino. Colpisce infatti, in una serie di foto, il corteo che lascia il paese per raggiungere il pratone dove ci si raduna tutti insieme, che si dispone come il Quarto stato, e poi il saluto a pugno chiuso con il comizio che sostituisce la messa. In realtà il parroco e il sindaco trovarono presto delle forme di dialettica convivenza, appartenendo a una sola comunità (Eh sì, Don Camillo come parte del nostro DNA). Nel luminoso e scavato bianco e nero delle foto manca un elemento che è recuperato nell’uso che se ne fa nel pregevolissimo catalogo: il colore rosso che, attraverso la Rivoluzione francese e Garibaldi, diviene un patrimonio identitario della nostra sinistra (sia detto in tempo di governi giallo-verdi). 

 

Ph Ferruccio Malandrini.


Malandrini, autodidatta, classe 1930, fotografo a metà tra professionismo e passione (una categoria recuperata negli ultimi anni dal rimpianto Cesare Colombo), anche quando lascia, come un personaggio di Bianciardi, la Toscana per Milano, torna ogni anno a Mensano per documentare il Primo maggio. Nel catalogo Francesco Faeta parla di una “etnografia visiva” e Pietro Clemente di un “popolo scomparso”. Tutto giusto. A me colpisce l’arrivo, col passare degli anni, della rivoluzione dei consumi (l’unica vittoriosa) e il passaggio dalla giacca e cravatta del giorno di festa ai pullover e ai dolcevita dei primi anni Settanta. Oppure, ancora di più, le facce degli italiani, oggi uniformate, mentre allora le orecchie a sventola o i denti storti venivano mostrati senza inibizioni.

 

Ph Ferruccio Malandrini.


Ogni festa italiana non è tale se non finisce in una mangiata, da quelle parti “una merenda”: e allora fiaschi di Chianti, teglie di lasagne, dolci e biscotti preparati dalle donne di casa (il femminismo è ancora di là da venire).

Il Primo maggio si festeggia ancora a Mensano, ma è scomparso quel popolo, tornando a essere “un volgo disperso che nome non ha”. Cosa è successo in questi anni?

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Una religione laica in Italia
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Menzogna mediatica

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Umberto Eco e Aldo Grasso hanno effettuato nel 1969 un esperimento. Il primo ha scritto una sceneggiatura che il secondo ha utilizzato per ricavarne il programma televisivo Fiamme a Vaduz, che raccontava attraverso il linguaggio giornalistico una serie di violenti scontri avvenuti a Vaduz, capitale del Liechtenstein, tra i valdesi e gli anabattisti. Il programma è stato poi presentato in tre diverse versioni a tre gruppi di spettatori di differente livello culturale e, come ha scritto Eco in Dalla periferia dell’impero, «la stragrande maggioranza dei soggetti (compresi alcuni che avevano già visitato il Liechtenstein) non ha messo in dubbio la veridicità del racconto» (p. 286). Dunque, l’esperimento condotto da Eco e Grasso ha mostrato che la televisione, se viene utilizzata sfruttando al meglio il suo linguaggio, è in grado di essere estremamente convincente, anche se parla di qualcosa che in realtà non è mai avvenuto. Ciò è possibile perché la televisione si caratterizza per essere una forma di comunicazione basata su un flusso d’immagini veloci, con ritmi intensi e una continua variazione dei soggetti presentati, che sfugge al controllo razionale. Ma soprattutto in televisione, come in tutti i media, sono presenti delle pratiche di manipolazione dei significati. Ciò che arriva allo spettatore è un insieme complesso di suoni e immagini che qualcuno ha realizzato secondo le sue particolari intenzioni comunicative e che lo spettatore ha difficoltà a decodificare perché è il risultato di un sapiente montaggio di varie componenti: inquadrature, montaggio, musica, ecc.

 

Va anche considerato però che, a partire dagli anni Settanta, c’è stata un’intensa diffusione dell’uso degli strumenti informatici, che ha comportato lo sviluppo di un processo di digitalizzazione, il quale ha determinato a sua volta delle importanti conseguenze sull’ambiente culturale e sociale. Le informazioni digitali infatti hanno la capacità di essere prodotte, compresse, conservate, replicate e diffuse con una notevole facilità e a costi estremamente contenuti. Pertanto sono cresciute in maniera esponenziale sia la quantità di tali informazioni che la velocità con la quale è necessario sostituirle. Ne è derivato un abbassamento della qualità delle informazioni che si producono e si diffondono. 

 

 

E va anche considerato che molti hanno imparato a produrre delle informazioni dotate di un carattere professionale. La sempre più ampia disponibilità di programmi informatici facilmente utilizzabili ha infatti democratizzato la possibilità di modificare e rielaborare le immagini e le informazioni esistenti. Si è sempre più diffusa così quella figura dell’«amatore» di cui ha parlato il sociologo Patrice Flichy in La società degli amatori, cioè un soggetto il quale, pur essendo animato da una semplice passione, è in grado di produrre dei lavori dotati di un livello qualitativo estremamente vicino a quello professionale. Ne è derivata però anche una conseguenza imprevista, e cioè un aumento esponenziale delle truffe che vengono create nella società. Molte persone si sono messe infatti a manipolare le rappresentazioni della realtà, perché non è più necessario avere delle grandi risorse per poter elaborare efficacemente i contenuti dei messaggi trasmessi dai media. Oggi infatti, grazie alla disponibilità dei nuovi strumenti digitali, gli individui possono produrre facilmente dei messaggi falsi e diffonderli in maniera estremamente veloce attraverso i social media. Non a caso oggi si parla spesso di «post-verità». Soprattutto dopo l’incisivo ruolo che molti messaggi falsi hanno esercitato nel 2016 nel condizionare l’elezione negli Stati Uniti del Presidente Donald Trump. La campagna per le elezioni presidenziali americane ha reso infatti particolarmente evidente come social media quali Facebook e Twitter consentano di costruire e diffondere facilmente le notizie false. 

 

I social media, a causa della loro natura economica basata sulla necessità di avere dei flussi di comunicazione che circolano velocemente e senza incontrare ostacoli, sono probabilmente molto adatti a diffondere la post-verità. Infatti, più attirano l’attenzione, più riescono a generare traffico e quindi profitti. Dunque, quello che importa non è tanto la verità, ma la capacità di “monetizzare” la quantità di click prodotta dagli utenti. Il problema delle “bufale” è però da sempre particolarmente connesso con il mondo dei media. Umberto Eco, nel suo Trattato di semiotica generale, sosteneva che tutta la comunicazione dev’essere considerata una forma di menzogna, perché, «Se qualcosa non può essere usato per mentire, allora non può neppure essere usato per dire la verità: di fatto non può essere usato per dire nulla» (p. 17). Ne deriva che i media devono essere visti come degli strumenti efficaci per esercitare l’arte della menzogna. 

 

Nell’ambiente digitale contemporaneo, però, un’informazione distorta o menzognera, quando viene prodotta (anche da parte di un singolo individuo), può diffondersi attraverso modalità veloci e arrivare facilmente a enormi quantità di persone. Le quali possono essere dunque condizionate nei loro comportamenti da tale informazione. E comunque vedono progressivamente ridursi la loro capacità di distinguere le informazioni provenienti da autorità attendibili rispetto a quelle che sono invece del tutto inattendibili. Se consideriamo poi che la quantità di informazioni disponibili aumenta ogni giorno, ne deriva che le persone tendono in maniera crescente a perdersi all’interno di un’ampia massa d’informazioni che appaiono loro come sempre più indifferenziate e confuse. 

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Il lampadario Coppelia di Arihiro Miyake

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Ha solo tre anni di vita ma, da quando è sbarcato sul mercato americano, è già diventato una star, e il termine è doppiamente appropriato, trattandosi di un lampadario che, quando si illumina in una stanza buia, mima un cielo stellato. Il suo successo è planetario (ecco di nuovo un termine piuttosto confacente). Tutto questo per introdurre una lampada a sospensione firmata dal designer giapponese, naturalizzato finlandese, e da qualche tempo anche milanese, Arihiro Miyake (1976). 

Si tratta di un lampadario che reinterpreta in modo innovativo quelli tradizionali da sala da pranzo, a gocce, soltanto che Coppelia– questo il suo nome – in luogo delle classiche gocce di cristallo che riflettono e rifrangono la luce, è invece dotato di gocce che emanano esse stesse la luce.

Lo costituisce un doppio telaio (ciascuna delle cui parti ricorda vagamente lo studio del Mazzocchio in prospettiva di Paolo Uccello) ordito da un filo d'acciaio inox che, variamente diretto, in su, in giù, verso destra, verso sinistra, va a descrivere più linee vettoriali sulle quali sono appuntate dozzine di lampadine a LED in policarbonato, di forma cilindrica, simile a quella delle vecchie candele dei lampadari-candelieri che hanno preceduto quelli elettrici. Uno dei due telai costituisce il polo negativo, mentre l'altro quello positivo: dal loro collegamento si genera la corrente elettrica che, viaggiando all'interno dei vettori, senza bisogno di fili aggiuntivi, va ad alimentare direttamente ogni LED, cosicchè quando il lampadario viene acceso, sembra illuminarsi per effetto di magia. Si tratta inoltre di un lampadario ad elevato risparmio energetico, infatti, sebbene nella versione più grande i LED siano addirittura 54, il loro consumo è di soli 20W, a fronte di una luminosità di ben 400 Lumen.

 

 

Arihiro Miyake, insieme e dettagli del lampadario Coppelia, per Moooi, 2015. In alto, al buio, effetto cielo stellato.


Arihiro Miyake è nato in Giappone e vi ha studiato alla Kobe Design University, per poi trasferirsi in Finlandia a conseguire un master alla Aalto University. Ora divide il suo tempo tra Helsinki, Londra e Milano, dove ha recentemente aperto uno studio, perché la città meneghina gli ha portato parecchia fortuna, come ha dichiarato lui stesso in un un’intervista rilasciata alla rivista londinese Dezeen che si occupa di architettura e di design. Ed è proprio a Milano che Arihiro ha iniziato la sua carriera professionale, mentre era ancora uno studente, presentando i suoi prototipi al Salone Satellite, un evento collaterale all'annuale Salone del Mobile. Il Salone Setellite mette infatti in diretto contatto i designers under 35 e gli allievi di centinaia di scuole di design di tutto il mondo, preventivamente selezionati da un’autorevole commissione, con gli espositori del Salone del Mobile, ovvero con le aziende di produzione. 

 

Nato nel 1998, per iniziativa di Cosmit, con la regia di Marva Griffin Wilshire, il Salone Satellite nel 2014 si è aggiudicato il Compasso d’Oro alla carriera per i suoi meriti di insostituibile fucina di nuove idee, ma soprattutto di prezioso incubatore delle nuove promesse del design internazionale.

Ed è proprio grazie al Salone Satellite se Arihiro Miyake ha avuto la prima occasione di veder prodotto un suo prototipo. Era il 2009 e, quell'anno, egli vi aveva presentato una lampada da scrivania a cui aveva dato il nome di Carat, perché la sua base poliedrica ricordava le sfaccettature di un diamante. Un bel giorno, Marcel Wanders e Casper Vissers, i due fondatori del brand olandese Moooi (termine che in nederlandese significa bello), in visita all'esposizione milanese a caccia di talenti, hanno scoperto il suo. Ed è stato così che già l’anno successivo, quella lampada è stata messa in produzione dall'azienda di Breda con il nome di Miyake Lamp

 

Da allora, il giovane designer ha continuato a lavorare per il noto brand, fino a creare Coppelia, un lampadario che ha immediatamente incontrato il favore del pubblico, raggiungendo cifre di vendita da record.

Il suo autore lo ha chiamato così in omaggio all'omonimo balletto, musicato da Léo Delibes e andato in scena per la prima volta nel 1870 all'Opéra National di Parigi, che ha come protagonista una ballerina che finge di essere un automa, una bambola meccanica. Il parallelismo tra la lampada Coppelia e la Coppelia musicale non si limita però al nome, e neppure al fatto che il lampadario, nella sua forma e nella sua trasparente levità, ricordi un tutù, ma va rintracciato nel loro comune ‘secessionismo’, se infatti quel balletto, nella storia della coreutica, ha rappresentato un'audace rottura con il mondo delle coreografie ad esso contemporanee, pur restando legato alla tradizione, il lampadario Coppelia rompe di fatto con l’illuminotecnica consueta, senza tuttavia discostarsi troppo, nella forma, dai consueti lampadari a gocce.

 

Arihiro Miyake, disegni di progetto del lampadario Coppelia. Il designer giapponese preferisce fermare le sue idee sul foglio con le tradizionali matite colorate anziché virtualmente con l’AutoCAD. I primi schizzi di Coppelia risalgono al 2013, ma la messa in produzione è iniziata solo nel 2015.


La creatività di Arihiro Miyake appare stimolata dai contrasti, dalle contrapposizioni, se non addiritura dai paradossi, così egli progetta l’impiego di modernissime LED Light Technology avvalendosi delle vecchie, intramontabili, matite colorate (vedi foto), in luogo del più attuale e ipertecnologico software AutoCAD (computer aided design) per poi introdurre queste moderne tecnologie in forme rétro, assolutamente fedeli alla tradizione, come quella di un lampadario ultramoderno mascherato da candeliere. Il suo è un design ambiguo, o, per meglio dire, spiazzante, ma forse proprio per questo risulta essere molto seduttivo e di forte impatto emozionale, tanto da essersi meritato fin da subito l’enorme successo che gli ha tributato il pubblico di tutto il mondo. 

Chissà cosa ci riserverà in futuro la fantasia di Arihiro Miyake. 

L'attesa della sorpresa è già iniziata.

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Un cielo stellato sopra di noi
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Manuale di volo

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L’immagine sul monitor è granulosa, sbiadita; si intravedono una linea di colline, un lago, qualche cespuglio, un uomo ripreso di spalle, maglia e pantaloni scuri: stende le braccia, le batte come le ali di un uccello, fa un salto. L’atterraggio, un metro più avanti, è goffo, ridicolo. E ricomincia: salta, agita le braccia, ricade incespicando. La performance Tentativo di volo– filmata da Gerry Schum nel 1970 per il suo documentario Identifications– è tra le più note di Gino De Dominicis, figura quintessenziale del paesaggio artistico italiano dello scorso fine secolo. Lo slapstickè il modo con cui De Dominicis si appropria, rovesciandola comicamente, di una tenace mitologia artistica moderna, il superamento dei limiti fisici, l’elevazione verso uno spazio estetico-politico posto al di là dell’immediato presente.

 

Gino De Dominicis, Tentativo di volo, 1970

 

Ma il Tentativo, come ha notato Michele Dantini, è anche la puntuale parodia di quel Salto nel vuoto (1960) con cui Yves Klein celebrava il suo singolare ingresso in uno “spazio” dell’arte tutto immateriale e mentale, così come un altro lavoro di De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1970) – uno scheletro umano steso al suolo con dei pattini a rotelle ai piedi, che con una mano porta al guinzaglio lo scheletro di un cane e con l’altra regge in bilico un’asta verticale –, espone il rovescio immobile e mortale del mito della velocità, abbattendo ironicamente il pattinatore dotato di paracadute impersonato da Robert Rauschenberg nella performance Pelican (1963).

 

Robert Rauschenberg, Pelican, performance, First New York Theater Rally, New York, 1965

 

Quest’ultima opera, come le prime due , è visibile ora in L’Envol,ou le rêve de voler, l’esposizione in corso (fino al 28 settembre) alla Maison Rouge, che conclude, dopo quattordici anni, le attività dello spazio parigino. Compendio degli interessi e del gusto che hanno segnato tutto il programma precedente, la mostra si presenta come un assemblaggio tematico, una campionatura eclettica più che un percorso storico. Il volo, in questa prospettiva, è anzitutto una piega dell’immaginario, un atto metaforico, un “possibile” da esplorare col corpo, i sensi, la tecnica, l’utopia, il sogno. L’allestimento si sottrae dunque a qualsiasi linearità cronologica, preferendo accostamenti e contrapposizioni spesso studiate per generare il massimo effetto sorpresa. Luna (1968), un ambiente chiuso e in penombra, dal pavimento ricoperto con uno spesso strato di granuli bianchi di polistirolo, in cui Fabio Mauri prefigurava lo sbarco sul nostro satellite, corona così un percorso in cui si possono incontrare l’improbabile macchina per volare di Gustav Mesmer, inventore e paziente psichiatrico ossessionato dal sogno del volo, il prototipo Letatlin (1929-32, ricostruito nel 1991), a metà strada tra invenzione leonardesca ed exploit tecnologico, del costruttivista sovietico Vladimir Tatlin, le inquietanti appendici piumate di Rebecca Horn, o i modellini volanti di elicotteri che sciamano come insetti nel video di Roman Signer 56 kleine Helikopter (2008).

 

Vladimir Tatlin, Letatlin, 1929-32, ricostruito nel 1991

 

I momenti più singolari e intensi di L’Envol sono quelli in cui il tema è sviluppato in sensi meno letterali, dove il volo diviene elevazione spirituale, o spiritista, delirio visionario, danza, allucinazione. In linea con la passione per l’art brut e le figure marginali e idiosincratiche che ha sempre caratterizzato il programma della Maison Rouge, questi passaggi sono spesso affidati a outsiders come Friedrich Schröder Sonnenstern (1892-1982), i cui pastelli colorati sono stati molto amati dai surrealisti, lo statunitense Henry Darger (1892-1973), con i fantastici acquarelli tratti dalla sua sterminata e delirante raccolta postuma In the Realms of the Unreal, o le multicolori evocazioni di apparizioni di UFO di Melvin Edward Nelson (1908-1992).

 

Friedrich Schröder-Sonnenstern, Der Friedens Habich, 1960

 

Altri autori di profilo similmente irregolare si situano in un territorio a cavallo tra delirio privato, utopia umanista e immaginario tecnologico. Come Karl Hans Janke (1909-1988) ad esempio, ospite per decenni di istituti psichiatrici tedeschi, eccentrico progettista di gigantesche e inverosimili macchine volanti destinate a trasportare centinaia di passeggeri, e autore di visioni cosmogoniche fissate in disegni e gouache di grande suggestione. O come Adolf Wölfli, una delle prime e più note figure dell’art brut – il suo lavoro fu fatto conoscere, tra gli altri, da Jean Dubuffet e da Harald Szeemann, che lo espose a documenta 5 nel 1972 –, i cui grandi disegni minuziosamente eseguiti, come in mostra la grande veduta a volo d’uccello di una città con mura e torrioni, fanno parte della sua sterminata e visionaria autobiografia immaginaria. Non mancano tuttavia opere di autorship più collaudata, come l’installazione How Can One Change Ourself (2010-18) di Ilya ed Emilia Kabakov, già vista di recente al MAXXI di Roma, teatro di un’esistenza sospesa tra progetto di fuga e rêverie, la performance in pallone di Otto Piene (Sky Kiss-Linz, 1982) o la molle e carnale massa sferica in caucciù di Nobuko Tsuchiya (11 Dimension Project 2, 2011). 

 

Fabio Mauri, La Luna, 1968


E tuttavia, benché suggestive, queste e altre scelte ancora appaiono in gran parte solo incidentalmente legate al tema, per lo più per via iconografica, ma senza che questo dia luogo a ragionamenti o indagini di ordine più generale, ad esempio in direzione di una migliore comprensione dei modi con cui l’immaginario del volo si è evoluto attingendo tanto alla tradizione artistica vera e propria che alle fonti della cultura popolare o all'illustrazione tecnica, oppure guardando con spirito più critico al peculiare fondo psichico e antropologico attivo nelle rappresentazioni, specie nel caso dei numerosi outsiders presenti in mostra. L’atteggiamento di fondo – in questa come in gran parte delle mostre che hanno segnato l'attività della Maison Rouge – è e rimane in effetti, con le sue virtù e i suoi limiti, quello della scelta idiosincratica, della predilezione collezionistica per l’eccentrico, il raro, l’inusuale. Un atteggiamento di cui Walter Benjamin fissò in un saggio famoso, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), il profilo eminentemente moderno, che va alla ricerca di sempre nuovi oggetti nei «territori estremi» in cui le vecchie distinzioni (high artart brut, colto e popolare, elitario e di massa, ecc.) perdono valore, e la collezione stessa, da tesoro privato diviene oggetto pubblico. 

 

Come altre che l’hanno preceduta negli stessi spazi, L’Envol presenta in effetti il mondo, la sua storia, come una democrazia magica, anarchica, illimitata, senza conflitti e senza negativo, dove lo spettatore-consumatore si sente libero di cedere alla meraviglia, libero da ogni pedagogia, libero di immaginare, evadere, godere: si può guardare tutto e dimenticare tutto. Un confronto immediato è con un’altra mostra, di ben più ampie proporzioni e ambizioni, in corso a Parigi in queste settimane: UAM. Une aventure moderne (Centre Georges Pompidou, fino al 27 agosto), dedicata alle origini e alle vicende della Union des Artistes Modernes, il gruppo-faro del modernismo francese. Con i suoi nomi eccellenti, da Eileen Gray, Le Corbusier, Mallet-Stevens, a Charlotte Perriand e Jean Prouvé, la mostra è ricchissima di opere, modelli, immagini, documentazione, che misurano anno dopo anno l’evoluzione di architettura, design e arti decorative in Francia, dal gusto Art Nouveau del primo decennio del XX secolo al razionalismo modernista di cui il gruppo UAM, fondato nel 1929, fu tra i maggiori interpreti.

 

Robert Mallet-Stevens, Ingresso della III Exposition de l'Union des Artiste Modernes, Paris, 1930

 

Nella mostra, il film di Man Ray Les Mystères de  Château du Dé, girato nel 1929 nella Villa Noailles a Hyères, progettata da Robert Mallet-Stevens per la coppia di facoltosi mecenati Charles e Marie-Laure de Noailles, è forse l’inaspettato momento di sintesi tra le diverse sfaccettature del movimento moderno francese. Forse nessuno come il grande artista surrealista è riuscito infatti a catturare con più sottigliezza la singolare mescolanza di formalismo, lusso, erotismo ed ennui che in Francia segna molti aspetti del modernismo tra anni Venti e Trenta, un momento storico in cui le spinte alla trasformazione sociale e alla palingesi politica, la severità e frugalità connaturate al messaggio dell’avanguardia si stemperano in una versione al tempo stesso purificata ed edonista, in cui le linee raffinate degli edifici e degli oggetti di design si caricano di un’eleganza insieme fredda e sensuosa.

 

Forse per questo, pure con tutta la sua ricchezza di spunti storici e culturali, la presenza di rari e straordinari originali, la sua compostezza didattica, al di là della stessa indiscussa grandezza dei suoi protagonisti, la mostra non riesce a ripensare l’utopia modernista se non come celebrazione di se stessa. Resta freddamente racchiusa nelle proprie geometrie, nei pattern eleganti, nell’accumulazione delle superfici levigate di acciaio e vetro di oggetti e architetture, simili a splendidi, algidi testimoni di un tempo non ritrovato.

 

 

Alla fine, pur con tutti i suoi evidenti difetti, occorre però riconoscere a L’Envol una qualità dolorosamente assente in troppe mostre recenti, piccole e grandi. La capacità cioè di attingere a immagini considerate come eventi in sé, più che come supporti di petizioni moraliste o di schedature erudite. Immagini che sembrano essersi imposte quasi già fatte a chi le ha realizzate, per quanto strane, perturbanti, impreviste, non evolute, e che a dispetto della loro sempre contingente, storica e dialettizzabile novità, appaiono pretendere da chi le guarda anzitutto il riconoscimento, sempre in bilico tra adesione irragionevole e clinico distacco, del loro essere impreviste e imprevedibili.

 

La dolce vita, 1960

 

L’immagine che riassume tutto questo è anche la prima in cui si imbatte lo spettatore, la proiezione della celebre, folgorante sequenza iniziale de La dolce vita di Federico Fellini, in cui una grande statua di Cristo sorvola appesa a un elicottero la città di Roma, dalla campagna con i ruderi degli acquedotti romani ai nuovi palazzoni della periferia moderna fino a San Pietro, sintesi fulminante di una paradossale, insieme euforica e malinconica, transizione dal passato al futuro. La eccezionale densità simbolica dei fotogrammi felliniani, il loro potere di convocare in forma ambivalente, ossimorica, lo spessore di una contraddizione che è insieme politica e antropologica, privata e collettiva, materiale e poetica, è precisamente ciò che folgora quel presente e seguita a riproporcene l’appassionante enigma. Come scrisse un critico dell’epoca, Pietro Bianchi, Fellini riaffermò con La dolce vita una vecchia idea cara ai romantici; che cioè in epoche di crisi, di trapasso da una civiltà troppo conosciuta a un’altra che appena si intuisce, solo l’artista riesce a conferire coerenza vitale ai fatti immotivati della realtà che lo circonda. È probabile che si debba insieme sorridere di questa ingenua fiducia e continuare a ritenerla una indispensabile possibilità.

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La mostra alla Maison Rouge di Parigi
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Il trasformismo dei ciclamini

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Come le viole dei campi, i ciclamini sono gli umili fiori dei boschi. Come quelle, reclinano il capo, non per modestia ma per diffidenza: almeno così azzarda la simbologia applicata al regno vegetale, forse per via del tubero velenosetto, saturo di saponine ma ghiotto boccone per i grifi suini, donde il didascalico nome popolare di panporcino. Anch’essi han battezzato un colore che, ciclicamente (l’avverbio è quanto mai pertinente), torna a tingere gli outfit femminili, specie d’estate quando il più profumato della famiglia, il Cyclamen purpurascens o Ciclamino delle Alpi, accende l’ombra del sottobosco. 

 

 

Quel che più mi sorprende di questa piccola erbacea perenne, imparentata con le Primule, è il miracolo di trasformismo e d’ingegneria botanica di cui è capace. Chi mai immaginerebbe che dal solitario bocciolo a forma di mezzo fuso, con i petali pressati a spirale l’uno sull’altro, sortisca un fiore volgente all’indietro cinque alucce rosa carminio (lacinie riflesse), ovvero orecchie, come preferiva chiamarle D.H. Lawrence: («And cyclamens putting their ears back», Sicilian cyclamens). Entro la corolla – una coppa perfetta, traslucida, montata su cinque sepali triangolari, venati nel verde del medesimo porpora dello scabro peduncolo che le sorregge e che manco Lalique redivivo saprebbe riprodurre – si allogano cinque stami convergenti a piramide e uno stilo sporgente dalla fauce pentagonale, lasciata scoperta dai petali riversi dove più intenso si fa il pigmento violaceo, più pregno il «gentile effluvio» (E. Flaiano, Tempo di uccidere). Sarà per questo loro particolare copricapo che i ciclamini mi paiono tanti piccoli indiani boscherecci intenti a lanciare il grido di guerra in difesa del proprio territorio. Che dire poi dell’astuzia dello stelo quando s’avviticchia su se stesso e, a mo’ di molla, piega la sferica capsula del frutto per spingerla al suolo, dov’è necessario giunga ad interrare il seme e garantire la nuova progenie (maturazione ipogea). Non meno attraenti sono le foglie: basali e carnose, stendono sul lungo picciolo una lamina cuoriforme sfumata di viola nel verso, verde e innervata di chiaro nel recto.   

 

 

Spontanei in Italia sono anche il Cyclamen repandum e il Cyclamen hederifolium (o Ciclamino napoletano); non è difficile distinguerli perché non condividono né il medesimo areale del purpurascens (le regioni dell’arco subalpino), né il periodo dell’antesi: sono infatti diffusi dal centro al sud della penisola e, a differenza dell’alpino, che fiorisce tra agosto e settembre, il repandum sboccia in primavera, l’hederifolium in autunno. Mostrano pure alcune diversità morfologiche, sia nelle foglie – ovali nel napoletano che le allunga dopo i fiori, triangolari e dentate nel repandum– sia nei fiori meno profumati, se non del tutto inodori. Per altro, le corolle del partenopeo sono pallide – trascolorano dal malva al bianco puro – e con vezzose fauci auricolate (forse da qui le «ears back» di Lawrence?). 

Non rivaleggia con questi nostri selvatici il Cyclamen persicum, definito dall’intemperante Ippolito Pizzetti «insipido, come se fosse di pezza». I suoi molti ibridi, che invadono il mercato per Natale, cercano di sopperire all’handicap con il vigore, la varietà dei colori vivaci e delle taglie, ma non restituiscono quella grazia silvestre.

 

 

È questo il momento migliore per un’escursione boschiva o montana: nelle faggete e nelle radure di soffice humus, e più su, nelle ghiaie e rocce del substrato calcareo, le macchie di panporcino annunciano la loro presenza al naso del viandante prima ancora di commuoverne gli occhi. Il mio posto dei ciclamini è il sottobosco all’orlo della Valle del Freddo, luogo magico di bocche gelide e rare peonie selvatiche. 

Quello di Antonia Pozzi era la Valsassina: a Pasturo, ai piedi della Grigna Settentrionale, il 17 luglio 1929 dopo una camminata in cerca di ciclamini, scriveva una poesia di plastica energia vitale e di tensione mortuaria. Qualcuno dei molti fan di Alda Merini potrebbe opporre quei versi di Ascolta il passo breve delle cose in cui la donna si dice «fatta di ombre e ciclamini, / ti chiede il tuo mistero / e tu non lo sai dare». Ma a questo fiore di sassi e di ombre non si addicono bamboleggiamenti. Le parole in versi di Antonia sono «asciutte e dure», il suo Canto selvaggio sa dell’eccesso di gioia (gioia per la vita) e dello sgomento provati sul ciglio del crepaccio, là dove si radicano i ciclamini:

 

 

Ho gridato di gioia, nel tramonto. 
Cercavo i ciclamini fra i rovai: 
ero salita ai piedi di una roccia 
gonfia e rugosa, rotta di cespugli. 
Sul prato crivellato di macigni, 
sul capo biondo delle margherite, 
sui miei capelli, sul mio collo nudo, 
dal cielo alto si sfaldava il vento. 
Ho gridato di gioia, nel discendere. 
Ho adorato la forza irta e selvaggia 
che fa le mie ginocchia avide al balzo; 
la forza ignota e vergine, che tende 
me come un arco nella corsa certa. 
Tutta la via sapeva di ciclami; 
i prati illanguidivano nell'ombra, 
frementi ancora di carezze d'oro. 
Lontano, in un triangolo di verde, 
il sole s'attardava. Avrei voluto 
scattare, in uno slancio, a quella luce; 
e sdraiarmi nel sole, e denudarmi, 
perché il morente dio s'abbeverasse 
del mio sangue. Poi restare, a notte, 
stesa nel prato, con le vene vuote: 
le stelle – a lapidare imbestialite 
la mia carne disseccata, morta.

 

Così, la sera del 3 dicembre del 1938, a soli ventisei anni, Antonia Pozzi pose fine alla sua esistenza stesa sul prato dell’abbazia di Chiaravalle. A lei che la vita la cantò al colmo e con voce ferma, «con trepido cuore a fior di mani» e «senza tristezza», offriremo il sangue delle Grigne. Sulla sua tomba, a Pasturo, porteremo dei ciclamini. 

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Gli umili fiori dei boschi
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I colori del fascismo

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Fascismo di calcestruzzo, architetture di cartolina, pubblicato da poco da Barbieri editore di Manduria, è un catalogo di cartoline che ritraggono l'architettura del Ventennio. Enrico Sturani ci offre questo «racconto visuale e scritto» – come lo descrive nella prefazione il professore catalano di architettura Josep-Maria Garcia-Fuentes – come fa solitamente, a casa sua, casa museo romano della cartolina nel quale sono raccolti 150 mila esemplari, dalle raffinatissime di fine Ottocento e primo Novecento a quelle più sperimentali e provocatorie degli artisti della mail art. Tu telefoni, e Sturani ti prepara la teca sull'argomento che hai scelto; questa volta è l'architettura fascista. Il libro è strutturato allo stesso modo della cartella, gli argomenti sono ordinati per tipo di immagine: città di fondazione, luoghi del fascio, scuole, poste, colonie, oltremare – cioè colonie in senso proprio – e via dicendo. Il racconto accompagna lo sguardo e spiega la storia di queste cartoline, il loro valore di documento storico (qualche volta in assenza di altra documentazione iconografica), con qualche incursione nella storia dell'architettura, ma sempre attraverso la raffigurazione di una cartolina. Non manca qualche aneddoto spassoso, come la storia delle bronzee foglie di fico fatte applicare da Achille Starace ai nerboruti atleti di marmo, all'ultimo momento, prima dell'inaugurazione del Foro Italico nel 1932; ma forse no: non è escluso sia stato Giulio Andreotti nel 1960 per non creare imbarazzo per le Olimpiadi di Roma. Ma c'è anche la storia del "colosseo quadrato", cioè del Palazzo della Civiltà Italiana del gruppo Lapadula all'EUR, e dell'architettura minore, cioè degli orinatoi torinesi della ditta Umberto Renzi.

 

 

La maggior parte delle cartoline raccolte è in bianco e nero: bianche e grigie sono le nuove costruzioni in calcestruzzo e la cartolina è pronta a farsene specchio, fotografia di architetture «isolate dal contesto», «solitarie», «sospese», «assolute» – scrive Sturani riprendendo la descrizione di corrispondenti cartoline tedesche che raffigurano il «modernismo bianco» in Germania (Kristen Baumann e Rolf Sachsse, Moderne Grüße. Fotografierte Architektur auf Ansichtskarten 1919-1939, Arnoldsche Verlagsanstalt, Stuttgart 2004). Ma gli architetti fascisti non volevano solo riprodurre i risultati delle ricerche europee, volevano dare alle loro costruzioni un carattere nazionale, italiano, «per esprimere le aspirazioni eterne immanenti della Razza», come afferma Marcello Piacentini nel 1941 (cit. p. 38): grandi architetture severe, davanti alle quali il cittadino deve sentirsi piccolo, meschino, impotente. Allora il monumentale, il solenne, l'enfatico, si trasforma in pesante, greve, plumbeo, ottuso (p. 41). 

 

Agli aggettivi usati dai due storici tedeschi dell'arte e della fotografia Sturani aggiunge anche l'aggettivo «metafisico», ricordando le Piazze d'Italia di De Chirico. Sotto il titolo Metafisica, nella parte iconografica, ci sono infatti cartoline un po' inquietanti che raffigurano stazioni e viali vuoti oppure percorsi da uomini soli e distanti, vedute di interni con elementi ripetitivi, particolari che, pur essendo pubblicitari, sembrano fissare per sempre l'inutilità di una tavola apparecchiata o la solitudine di un gesto. «Metafisico effetto» lo ha chiamato altrove l'autore (Cartoline dalla A alla Z, Barbieri 2013, p. 252) ed ha quindi il significato psicologico di straniamento, di smarrimento, provocato dall'atmosfera sospesa e rarefatta, invero con uno slittamento semantico rispetto alla poetica di Savinio e De Chirico.

Sturani vi aggiunge alcune osservazioni tecniche: l'effetto metafisico delle piazze e degli edifici fotografati e riprodotti in cartolina potrebbe derivare da esigenze merceologiche. Le cartoline successive agli anni Dieci erano stampate in rotocalco, non più in fototipia, con tirature superiori alla produzione precedente, e, a partire da duecento pezzi venduti, producevano reddito, ma richiedevano tempi più lunghi. Il ritocco del negativo, che ne garantiva la durata, cancellava gli elementi accidentali – i fili elettrici, i passanti, il traffico – e aggiungeva le nuvole in cielo. Il tempo appariva sospeso nelle vie e nelle piazze deserte, come nelle nuove città di fondazione, come nei quadri di De Chirico che forse – si chiede l'autore – da queste visioni aveva tratto ispirazione. 

 

Cartolina fotografica degli Archi ornamentali del Piazzale d'onore, V Triennale di Milano 1933.


Altro aggettivo che definisce parte di questa architettura in cartolina è «razionale», corrispondente al programma del Movimento Italiano di Architettura Razionale del Gruppo 7 guidato Carlo Enrico Rava e sostenuto da Giuseppe Pagano. Questo filone funzionalista, per nulla gridato né monumentale, anzi asciutto, lineare, rigoroso, lo ritroviamo nelle cartoline fotografiche che raffigurano alcune delle numerosissime Case del fascio, qualche Casa del Balilla, alcune scuole e molti edifici del settore privato. A questo rigore – Sturani lo definisce quasi calvinista – corrisponde un desiderio di anonimato che in queste cartoline in bianco e nero si realizza alla perfezione: in quasi tutte non compare né il nome del fotografo, né quello dell'architetto, una sorta di «autoritratto collettivo» di una società (p. 54), al quale contribuiscono editori, stampatori, fotografi, architetti che credono nella costruzione di una nuova Italia: la maggior parte delle cartoline infatti non è di propaganda, ma «da tabaccheria» o prodotta da privati.

 

In bianco e nero sono anche gli "interi postali" di produzione statale: cartoline postali, vendute al solo prezzo del francobollo, che presentavano in stile enfatico, sul recto, accanto allo spazio per l'indirizzo, le principali opere architettoniche del regime. Brutte cartoline, scrive Sturani, stampate con il nuovo sistema calcografico in molte centinaia di copie, su un cartoncino leggero di bassa qualità, tanto da far dubitare l'autore che possa trattarsi di propaganda. A queste faranno seguito, a partire dal 1939, le cartoline postali, più decisamente propagandistiche, violente e volgari, dedicate alle Forze Armate, affidate spesso al genio perverso di Gino Boccasile.

 

Troviamo invece interessanti cartoline tra quelle realizzate per promuovere le esposizioni e le fiere: la cartolina che fotografa il padiglione futurista all'esposizione di Torino del 1928 di Enrico Prampolini (fig. 82, p. 44) e quella che ritrae i sei archi costruiti da Mario Sironi per la quinta Triennale a Parco Sempione a Milano (fig. 117, p. 95). Sono interessanti per l'oggetto che rappresentano, ma per il collezionista sono forse più accattivanti le cartoline a colori che cominciano ad apparire all'inizio degli anni Trenta. Nel catalogo possiamo trovare due cartoline realizzate per la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 dall'Istituto di Arti Grafiche di Bergamo, di Arnaldo Carpanetti e di Mario Sironi. A queste possiamo aggiungere le immagini di Dario Cella realizzate per la prima Mostra triennale delle terre d'Oltremare del 1940 a Napoli, la serie sul nuovo supporto linen che permetteva colori «acidi e accesi», dedicata al padiglione italiano a Chicago nel 1933, e molte altre che rivelano raffinate capacità grafiche.

 

Official Post Card of A Century of Progress, 1933, Chicago.


Particolare attenzione dedica Sturani alla figura di Attilio Calzavara, architetto e grafico che, nonostante il suo orientamento liberalsocialista, riuscì ad ottenere lavori dal Ministero dei Lavori Pubblici e dall'Opera Nazionale Balilla. «Gli effetti deformanti da supergrandangolo, il dinamismo di linee oblique, i gabbiani con le ali che paiono schegge, le compenetrazioni di forme, l'antidescrittivismo di un mare che va in salita, il valore cromatico-compositivo delle scritte» descrivono la cartolina futurista che Calzavara dedica alle crociere ONB (p. 63).

 

Attilio Calzavara, cartolina pubblicitaria, originale all'aerografo, 1934.


Non sono però questi i colori del fascismo. Il regime preferisce utilizzare le sfumature che vanno dal bianco al grigio scuro utilizzate nelle cartoline in bianco e nero che, come abbiamo visto, costituiscono la parte principale dell'iconografia del catalogo. Sturani dedica però un paragrafo a un architetto che rovescia questa impostazione senza rinunciare alla monumentalità. Si tratta di Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario, ingegnere capo delle Ferrovie dello Stato che progettò e fece costruire diciotto edifici postali e tredici stazioni. Sospeso tra il richiamo al classicismo e l'attrazione del Moderno, neofuturista per un breve periodo, l'eclettico Mazzoni utilizza tutti i materiali – dal travertino ai mattoni che dispone sfalsati attorno alle colonne per ottenere l'aspetto di tronchi di palma – e tutti i colori. Per gli esterni gioca con i colori del marmo, da quello nero Portovenere a quello del cipollino delle Alpi Apuane e dell'Elba che presenta venature di diverse tonalità di verde, a quello rosso di Castellammare. Gli intonaci sono coloratissimi, famosa la stazione di Faenza «color gelatina di fragole» (fig. 308, p. 171, purtroppo la riproduzione non è a colori). Nei suoi edifici postali – osserva l'autore – si entra attraverso colonne come fosse un palmeto, altre colonne circondano laghetti con sirene. Alle pareti vi sono mosaici di Prampolini, Depero o Fillìa, vetrate policrome, lampadari di Murano e al neon, infissi di rame e di anticorodal (lega di alluminio). Una festa cromatica che Sturani sembra apprezzare, ma i colori non compaiono nelle cartoline, li dobbiamo cercare in biblioteca nel raffinato libro di FMR, dedicato ai Palazzi storici delle poste italiane (Giuseppe Strappa, Giorgio Di Giorgio et al., Milano 1996, pp. 133-134). 

Scalone di accesso agli uffici direzionali, Palazzo delle Poste, Palermo 1934.


Le immagini cromatiche più interessanti riguardano gli interni del Palazzo delle poste di Palermo, inaugurato nel 1934 e per i quali Mazzoni utilizza marmo rosso di Portasanta e di Trapani, marmo giallo di Mori, marmo nero del Belgio, rame e anticorodal per gli infissi, lacche rosse e nere per le porte, marocchino rosso per il rivestimento delle sedie; alle pareti le allegorie futuriste della comunicazione di Benedetta Cappa Marinetti e tele di Tato (Guglielmo Sansoni), aeropittore futurista. A questa varietà gli autori contrappongono un esterno «rigidamente impaginato secondo gli stilemi classici propri dell'architettura aulica del regime fascista» (p. 91); a me non paiono contrapposti, interno ed esterno: i colori, ad eccezione di quelli delle opere pittoriche, sono i colori dei materiali e in questa loro aderenza alle cose, al marmo, al metallo, al legno e alla pelle, aspirano all'eternità, sono costitutivi della monumentalità e della retorica architettonica. A differenza dei colori di Sironi che Renata Pampas ha definito «i colori cupi della dittatura» e che richiamano i colori severi, materici e bruniti dell'arte etrusca e medievale, i colori di Mazzoni citano i colori dell'antico impero, dello sfoggio di potere e di ricchezza in un settore dello Stato sotto suo assoluto controllo, per lungo tempo senza concorsi, nell'Italia della dittatura. Di lì a poco le sanzioni avrebbero imposto i nuovi materiali dell'autarchia: l'Italianeum, nuovo linoleum ricavato dalle bucce di pomodoro scartate dalle industrie di conservazione, l'eternit in forma di lastre ondulate all'amianto (sic), e il cemento «debolmente armato», invenzione di Pierluigi Nervi per risparmiare il ferro che serviva alla guerra guerra (il saggio della studiosa del colore Renata Pampas si trova al sito).

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Architetture del Ventennio in cartolina
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Effetto Palomar

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L’ambiente è in penombra, le tre proiezioni emanano una luminescenza azzurra. Le inquadrature scorrono a ritmo sincopato: automobili, interni di abitazioni, facce di passanti, bambini, oggetti e apparecchi in uno studio d’artista, edifici, angoli di strade. Sono frammenti veloci, dispersi, enigmatici; la voce maschile che li accompagna ha un’inflessione stranamente monotona, trasognata. Tre lettere a Raymond Roussel (1969), uno dei lavori più suggestivi della grande mostra di Gianfranco Baruchello al Mart di Rovereto (fino al 16 settembre) si presenta come una immersione nell’esperienza onirica, di cui il caleidoscopico montaggio di found footage e riprese d’autore fornisce un magnetico equivalente. Nei tre filmati che compongono il lavoro (Limbosigne, A Little More Paranoid, La Degringolade), Baruchello associa alle immagini la sua voce – registrata al risveglio o nel dormiveglia e ancora impastata dei sogni appena conclusi e della loro inspiegabile, allucinatoria arbitrarietà – sulla base di un meccanismo casuale. Sogno e flusso di coscienza, documento e caso: sotto il segno di Raymond Roussel, l’eretico scrittore francese, grande inventore a inizio Novecento di giochi verbali e narrazioni aleatorie, Baruchello offre un’istantanea della propria vita psichica in cui affiora il ritratto di tutta un’epoca, vitale e inquieta.

 

 

La posizione idiosincratica di Baruchello nel paesaggio dell’arte europea nella seconda metà del Novecento ha solo negli ultimi anni iniziato a ricevere una più metodica attenzione critica, come testimoniato di recente dall’ampio e bel volume monografico dedicato alla produzione di film e video dell’artista (Gianfranco Baruchello. Archive of Moving Images, 1960-2016, a cura di Alessandro Rabottini e Carla Subrizi, Mousse 2017, pp. 576, € 38) e prima ancora dal catalogo Certe idee, pubblicato nel 2012 in occasione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La mostra al Mart – non una tradizionale “retrospettiva” in senso stretto, piuttosto un’ipotesi di lettura e uno scavo stratigrafico all’interno di quell’immenso giacimento che è l’opera di Baruchello – sceglie, sotto l’attenta regia di Gianfranco Maraniello, di partire dal presente, in particolare da un gruppo di nuovi lavori, tra cui l’installazione Le moi fragile (2018), in cui si trovano imprevedibilmente fusi e ricombinati in forma suggestiva uno studio cinematografico e un setting psicoanalitico, per procedere all’indietro, ritrovando via via, sul filo di collegamenti e assonanze, alcuni degli interrogativi che Baruchello ha costantemente formulato nel suo lavoro: che ne è del soggetto, e del soggetto-artista in particolare, del suo spazio di immaginazione e autoinvenzione, nell’epoca della creatività generica, dell’arte di e per la massa? Che posto occupano, che rilevanza hanno, il desiderio, la memoria, l’esperienza individuale nell’eterno presente dei media e del consumo universale?

 

Gianfranco Baruchello, Le Moi fragile, 2018, vista dell'allestimento

 

Le Tre lettere a Raymond Roussel– con cui termina il percorso dell’esposizione e di cui ha parlato anche Tommaso Isabella qui su doppiozero – riassumono in forma sintetica ed eloquente i modi con cui il lavoro dell’artista, nato a Livorno nel 1924, si è misurato con queste domande, protendendosi cioè verso le regioni dell’inconscio e simultaneamente verso il mondo degli oggetti quotidiani e verso la sfera mediale, ovvero quel tessuto connettivo di immagini, parole, comportamenti, che nella società contemporanea danno forma all’esperienza collettiva, ne sono per così dire insieme il basamento e il sintomo. Assemblage, ready-made e montaggio – metodologie moderniste, ormai ampiamente storicizzate, rivolte all’appropriazione diretta del “reale”, o meglio alla creazione di un effetto di reale– definiscono così sin dagli inizi una vicenda creativa che dialoga con le correnti più importanti del proprio tempo, in primo luogo new dada e nouveau réalisme, ma guarda simultaneamente all’indietro, e con occhio fresco e prensile, alla cultura surrealista e alla fondamentale lezione di Marcel Duchamp, individuando una posizione molto personale in cui convivono, come ha scritto Carla Subrizi, movimento dinamico e azione sulle cose, coscienza e reazioni arcaiche, percezione e informazione.

 

Gianfranco Baruchello, vista dell'allestimento, sala dei disegni

 

Un’attitudine testimoniata nella mostra a Rovereto anzitutto dalla serie di oltre duecento disegni datati dalla fine degli anni Cinquanta in avanti, in gran parte mai esposti in precedenza, esposti in grandi teche orizzontali che permettono di coglierne con grande previsione la qualità germinativa e sperimentale. In questo flusso di immagini intime e ininterrotte, un vero e proprio laboratorio in cui, foglio dopo foglio, è possibile scrutare sul nascere le invenzioni di Baruchello, l’affermarsi di una visione fuori dagli schemi, capace di combinare vena umoristica, intelligenza concettuale, con uno sguardo acuto e irriverente sulla realtà circostante, autobiografia poetica ed allusione erotica.

 

Gianfranco Baruchello, La prise de conscience II, 1962; a destra, A little more paranoid, 1962

 

Un assemblage del 1962, La prise de conscience II – presentato nello stesso anno alla storica mostra New Realists alla Sidney Janis Gallery di New York – condensa la visione dell’artista nel momento decisivo del suo ingresso sulla scena internazionale. La “presa di coscienza” del titolo allude alla possibilità di sottrarsi alla saturazione comunicativa – evocata dalla pila di quotidiani irrigiditi dal vinavil posta al centro del lavoro – e di stabilire una diversa relazione, critica, non scettica, col presente, di evadere dalla visione irrigidita, reificata, del tempo e della soggettività divenuta coessenziale alla società di massa. La “coscienza” cui fa riferimento il titolo è dunque anche, in modo ancor più stringente, l’Io cosciente, lo “I” – nel senso del pronome inglese “io” – ridotto a una striscia rossa verticale, letteralmente occupata, riempita dalle copie dei quotidiani, un po’ come i corpi dei decrepiti archeologi di de Chirico erano colmati, o invasi, dalle rovine classiche. L’“io”, sembra dire Baruchello, è non solo “un altro” nell’epoca dell’informazione, ma è parlato, agito in permanenza da forze che lo eclissano e lo dissolvono in forme potenti e nuove.

 

In un altro assemblage, A little more paranoid (1962) – una “cornice” tappezzata di ritagli di giornale che contiene alcuni libri ricoperti di pigmento bianco – il doppio riferimento ai combines di Robert Rauschenberg  e gli achromes di Manzoni approfondisce ulteriormente questa dimensione ironica e allegorica: il libro reso illeggibile diventa oggetto che diventa immagine che diventa pensiero, in un concatenamento di calembours visivi. Questo tratto rimarrà sempre caratteristico del lavoro di Baruchello così come di quello del suo coetaneo e ideale compagno di strada Marcel Broodthaers, altro artista essenzialmente solitario che negli stessi anni indaga con spirito pungente e iconoclasta l’ambigua relazione tra linguaggio verbale e sfera visiva, tra stereotipo, invenzione e memoria: e soprattutto, tra il potere dell’istituzione-arte e lo scarto, se mai possibile, prodotto dall’invenzione individuale (di Broodthaers Riccardo Venturi e Serena Carbone hanno scritto su doppiozero rispettivamente qui e qui).

 

Gianfranco Baruchello, Interpretación del preambulo, 1966

 

Più tardi, il formato della scatola-oggetto – coi suoi inevitabili riferimenti a Duchamp e a Joseph Cornell – evolverà nella serie dei preziosi, ineffabili “teatrini”, come ad esempio Autonomia della morte all’angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974 (1974), piccole ribalte in cui Baruchello, fondendo disegno, assemblage, scrittura e bricolage, compone brevi, ellittiche narrazioni sospese tra cronaca e immaginazione, in cui le allusioni al clima politico del tempo si trovano ancora una volta intrecciate a materiali onirici e libere associazioni. 

 

Gianfranco Baruchello, Autonomia della morte all’angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974, 1974

 

Il bianco, come non-colore, come campo aperto di possibilità visivo-verbali è la base dell’ampia e più nota produzione di Baruchello, i quadri su cui si accumulano a partire dal 1962 disegni, parole, linee, diagrammi. La ridotta dimensione di segni e glifi – “microimmagini”, le definì un critico al tempo ­– permette la loro dispersione anarchica, non predeterminata sulla superficie, un procedere secondo associazioni libere e impromptus iconici il cui modello più immediato è la pittura segnica di Cy Twombly – in cui griffonages, cancellature, frammenti di scrittura, collage, compongono una sorta di magmatico e luminoso equivalente dell’ininterrotta, inestricabile pulsazione di processi mentali e moti corporei –, raffreddata e come oggettivata in una cifra nuova e personale, in cui si combinano scrittura, disegno tecnico, fumetto, grafica, linguaggi cioè non pittorici e anzi esplicitamente segnati da un’origine mediale, pop, tecnologica, di massa. In altre parole, risolutamente contemporanea.

 

 Gianfranco Baruchello, Nei giardini del dormiveglia, III, 1984

 

Le superfici bianche, mai uniformi, possono così accogliere umori, proiezioni, associazioni inconsce, schegge di quotidianità, dérives dell’immaginazione, fantasmi erotici, visioni grottesche o surreali, sino a comporre una sorta di cosmo senza centro: in un va-e-vieni obbligato, lo spettatore deve avvicinare l’occhio alla superficie per cogliere i dettagli e leggere i testi e allontanarsi per far emergere i percorsi labirintici che li connettono, come accade in mostra ad esempio nel ciclo Nei giardini del dormiveglia (1984). Ma la lettura non è mai conclusiva, ogni tentativo di decifrazione finisce per generare uno scacco e la necessità di reiniziare da capo. La narrazione, come nei più radicali romanzi sperimentali della neoavanguardia, resta, deve restare, indefinitamente aperta.

 

In un testo del 1963, Baruchello evocava «la violenta trasformazione» necessaria all’artista per entrare in «possesso della dimensione grande angolo, l’effetto Palomar della mente, da 0 a 180 gradi, cioè apertura, dilatazione (occhio mano bocca ventre) e dunque grande apertura ex-plosione». La possibilità di questa nuova latitudine cognitiva, insieme corporea e mentale, erotica e politica, per la pratica dell’arte, è ciò che rende possibile in ultimo costruire i «piccoli sistemi» cari a Baruchello, forme sempre perfettibili e mai definitive di adattamento al mondo, di ridefinizione costante dell’umano: sottili, indispensabili, sempre attuali, ipotesi di sopravvivenza.

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Il monaco Gaudí

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Il monaco Gaudí vive nel cuore di Barcellona, a Parc Güell. Mi è presto chiaro che ho scelto il periodo peggiore dell’anno per rendergli omaggio. Da quando Barcellona non è più una città, ma una marca, la solcano torme di turisti mezzi nudi, con la musica sparata da casse bluetooth, sudati e famelici di vedere i luoghi-che-devono-essere-visitati. Sembrano perennemente in cerca di luoghi da sbranare e divorare. Quei luoghi puntualmente coincidono con i consigli delle guide turistiche in tutte le lingue del mondo. Li trovi ovunque, torvi e rumorosi, ridanciani e spaesati, in coda per mangiare o per il bagno, o che più semplicemente la fanno qua e là nei giardinetti pubblici. Hai voglia di fare il monaco qui, Gaudí. Per un numero sempre maggiore di città il turismo oggi è la disgrazia in senso assoluto: il cancro che le divora, la fabbrica che le mortifica, l’apocalisse che le impoverisce, come non riuscivano a fare nemmeno le cavallette bibliche con i campi coltivati. Poco importa che l’apocalisse abbia oggi nomi ariosi come appunto Airbnb: i locali non vi trovano tetto sotto cui vivere perché tutto si è ormai bed-and-breakfastizzato (vedi Venezia, summa di questo processo mondiale).

 

 

Ben inteso: si tratta di un’apocalisse normalizzata, alla portata dell’istinto distruttore di ogni piccolo io, come della terribile somma di tanti io. E in più: di un’apocalisse lucrosa all’ombra della quale fioriscono gli stessi commercianti dall’istinto predatore che invocano sempre più turisti e sempre più aeroporti, grandi navi, grandi stazioni.

Qui vengono a vedere anche Gaudí, si capisce. Lui, ignaro del successo che avrebbe colto la sua architettura e la sua città. Le sue fantastiche invenzioni vengono travolte dal flusso violento di un’estetica Disney a tutto spiano. È la disneyzzazione della città, volenti o nolenti, che fa di Gaudí – suo malgrado – un’icona del banale effimero che si può riprodurre su poster, magliette, presine da cucina, mutande colorate… Del resto il rapporto che Gaudí intrattiene con la sua città è un rapporto intimo, quasi incestuoso. Le dà forma, la costella di magnifici punti di riferimento e di svolta. I suoi edifici concedono alla via qualsiasi di vivere l’esaltazione che solo ciò che è unico e irripetibile permette.

 

 

Nel Parc Güell che oggi le torme attraversano tormentose e tormentate, Gaudí ci vive dal 1906 al 1925. Però a quel tempo il grande parco situato sul lato nord-est della città, appena sotto il Monte Carmelo, non è il parco di divertimenti che oggi visitiamo. È invece un immenso fallimento immobiliare: sorto come impresa immobiliare di Eusebi Güell, il progetto prevede originariamente l’ideazione (affidata a Gaudí) e la costruzione di sessanta ville immerse nel verde del parco, con vista sul mare e sulla città, grande più di 15 ettari. 

 

 

Nella casa costruita dal fido Francesc Berenguer, suo braccio destro e singolare figura di architetto senza laurea, come prototipo e show-room per il progettato complesso di ville, sua principale opera urbanistica, Gaudí passa gli ultimi vent’anni della sua vita, prima di trasferirsi nell’oratorio della Sagrada Família, dove morirà un anno dopo, a seguito di un grave incidente stradale (l’architetto viene investito da un tram). Ci vive in maniera frugale, in questo contesto pomposo che ha contribuito a disegnare e in cui nasceranno in effetti solo due ville. Al primo piano troviamo un bagno, il letto quasi monacale, un crocifisso in fronte, all’angolo destro il ritratto del papa; accanto la cappella per le preghiere al primo piano (mentre oggi al pianterreno sono esposti i mobili che Gaudí stesso aveva progettato per due dei suoi capolavori barcellonesi, Casa Calvet e Casa Batló, insieme ai mobili ideati per la cripta della Colònia Güell). In un’altra stanza è esposto quello che chiamava teneramente il suo tesoro: il libro di preghiere, un tessuto ricamato con le sue iniziali, una tazzina del caffè… poche cose che restano e che con la morte del loro proprietario hanno perso per sempre il valore affettivo che ne costituiva l’aura. Ora stanno là in una teca, mestamente, senza che sia più possibile accedere a quel rapporto segreto che costituiva l’unico motivo per possederle.

 

 

È un singolare contrasto con l’effetto bizzarro che i suoi edifici producono. Ci vive lontano dai gorgheggi della Sagrada Família, dove la pietra volteggia nell’accumulo dei tanti effetti disparati. Ma Gaudí era coraggioso, fautore di uno stile non facile e non comodamente riconducibile all’idea diffusa di “bello”. Gaudí dà le vertigini, gli unici a non accorgersene paiono essere i visitatori: in fondo il culto turistico della stravaganza li mette al riparo da tutto, produce il mondo come replica che si possa all’occorrenza acquistare e portare a casa. Familiarizzando il mondo, si finisce per non vedere più i balzi che qualcuno è stato in grado di fargli compiere. Ma come mi dice di Gaudí il ragazzino che mi accompagna in questi giri: lui costringe il futuro a ingrandire il bicchiere per farci stare il troppo di acqua che gli porta in dono. Vuol dire che ne cambia la misura, che alza l’asticella. A furia di incongruenze ha la forza di farci vedere ciò che non avremmo altrimenti mai visto. 

 

 

Questa mi sembra essere l’immagine per eccellenza della cultura. Davanti alla quale si staglia oggi onnipresente benché fondamentalmente impotente lo spettro imperante che fa di Gaudí la sottomarca (l’ennesima) di una marca che si chiama appunto “Barcelona”. Dove è presto evidente che questa ha poco a che fare con la vera città e che la condanna a essere una mera copia della Barcellona che tutti cercano, Gaudí compreso.

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Barcellona
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L’imperfetto, inattuale e così umano

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“Facciamo che io ero una principessa e che tu eri il mio cavaliere”: la formula stava e sta sulle labbra infantili. Cambiano i personaggi che la completano. Se “una principessa” e “un cavaliere” sono usciti dal novero dei menzionati, poco male. Bimbe e bimbi d’oggi sanno certo bene, giocando, chi “erano”: una influencer, per esempio, e un rapper. 

C’è una dichiarazione di simulazione alla base di un gioco siffatto. L’accompagna una sospensione dell’incredulità: tacita, ma indiscutibile. In nuce e quasi per intero, ecco l’umano. L’imperfetto vi compare con naturalezza e non è l’insegnamento di adulti a suggerirvelo. Come mai? Cos’è l’imperfetto? Per le grammatiche, un tempo del passato. Così lo presentano nelle loro tabelle. E allora?

 

Con la lingua, gli esseri umani hanno una mirabile facoltà. Possono esprimersi anche a proposito di ciò che non è in atto. Ciò che non è in atto ha un numero indefinito di faccette. Il passato è solo una di esse, a sua volta sfaccettata. Passato è ciò che non è più in atto, che non è più attuale. 

L’imperfetto è allora un modo (non il solo, del resto) per esprimere la non attualità di ciò di cui si sta dicendo. Dandosi il caso, quella correlata allo scorrere del tempo. Prospettando il passato come indefinita continuità, l’imperfetto prende dunque un valore temporale. Tale valore è incluso nella modalità non attuale: “…ero un professore dell’Università di Zurigo...”. Un tempo o “Facciamo che…”? Importa saperlo?

 

Come marca superficiale di non attualità, l’imperfetto s’inserisce perciò alla perfezione in quel gioco infantile e, in genere, nella narrazione: “Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa […] don Abbondio...”. Lo fa indefettibilmente, se si tratta della narrazione di un sogno: “Penso che un sogno così non ritorni mai più, mi dipingevo le mani e la faccia di blu, poi d’improvviso venivo dal vento rapito e cominciavo a volare nel cielo infinito. Volare oh oh…”. Nulla è in effetti meno attuale dei sogni. Ne sono discese, nei secoli, fortuna e fama di chi se n’è fatto interprete e li ha dotati di simbolica attualità. 

 

C’è imperfetto anche in “Se stavo bene a casa mia, secondo te, emigravo?”: l’esempio, come pretesto, è d’attualità, ma ovviamente in un senso diverso da quello qui in questione. In tal caso, è la non attualità della condizione, che appunto non si realizza, a trovare forma nell’imperfetto. La norma dice in proposito che si tratta di una sciatteria, se non di un errore. Che la norma abbia ragione è fuori discussione, com’era indiscutibile che Bruto fosse un uomo d’onore. Al pari d’altri casi, ciò che esula dalla norma è però conforme alla logica funzionale che vige e si svela nella parola infantile e in quella che narra: ambiti che, con i cosiddetti errori, capita contino più di norme e grammatiche, per capir lingua e esseri umani.

 

Comparso, in versione ridotta, sul “Corriere del Ticino” il 5 settembre 2018.

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Per capir lingua e esseri umani
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Postmodernità

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Sino a poco tempo fa, sembrava che ci fosse un largo consenso tra gli studiosi in relazione all’idea dell’ingresso di tutti i paesi occidentali, dalla metà circa del Novecento, nella fase della postmodernità. Il concetto di postmodernità ha avuto infatti un notevole successo per indicare l’arrivo di una nuova fase che rappresenta un superamento del lungo periodo storico della modernità. Negli ultimi tempi però tale concetto è stato frequentemente oggetto di critiche. Ora il filosofo Roberto Mordacci, nel recente volume La condizione neomoderna (Einaudi), esprime addirittura l’opinione che il postmoderno sia morto. Che cioè esso stia progressivamente estinguendosi a causa della sua incapacità di spiegare l’attuale fase evolutiva delle società moderne e che dunque noi stiamo entrando nella fase della «condizione neomoderna». 

 

In realtà, il concetto di postmoderno è sempre stato piuttosto insoddisfacente. La sua pretesa di segnalare l’ingresso delle società capitalistiche in una nuova era, successiva e differente rispetto a quella della modernità, è decisamente fuorviante. Va considerato, infatti, che la modernità ha attraversato nella sua storia diverse fasi e continua tuttora ad evolvere. La fase che è stata solitamente indicata dagli studiosi come postmoderna, e che coincide grosso modo con la seconda metà del Novecento, è sicuramente una fase innovativa nel processo di evoluzione del capitalismo, ma fa ancora pienamente parte della modernità.

 

Questa, come ha indicato Gilles Lipovetsky nel volume L’era dell’effimero (Garzanti), è stata fatta evolvere da due potenti vettori: l’orientamento verso il nuovo e la ricerca della libertà individuale. E tali vettori continuano ad esercitare più che mai la loro forza. Dunque, per indicare la fase attuale di evoluzione delle società occidentali avanzate, più che di postmodernità, ò necessario parlare di ipermodernità. Cioè di un processo che costituisce un’intensificazione e un’accelerazione della modernità.

Ciò appare però evidente soprattutto se si pone attenzione ai reali processi di cambiamento che si sviluppano nella società, cioè alle dinamiche che riguardano le dimensioni sociali fondamentali come l’economia, la tecnologia o la cultura. Tende a scomparire invece se ci si limita semplicemente a considerare le riflessioni elaborate a tavolino dagli studiosi.

 

Come d’altronde ha fatto anche lo stesso Mordacci, che ha costruito la sua analisi a partire principalmente dalle teorie filosofiche che sono state sviluppate da Nietzsche in poi. Mordacci, poiché non entra in profondità nell’analisi dell’effettiva evoluzione sociale, può distinguere pertanto facilmente tra una prima e una seconda modernità. La prima, a suo avviso, sarebbe quella che va dal Cinquecento al Settecento, cioè fino sostanzialmente all’Illuminismo. La seconda invece sarebbe quella che riguarda l’Ottocento e la prima parte del Novecento ed è dominata dall’idealismo e dal positivismo. Di conseguenza, Mordacci può permettersi di accusare diversi pensatori postmoderni, rei a suo avviso di aver sbagliato il loro bersaglio, in quanto hanno colpito non la vera modernità (la prima), ma soltanto la seconda, avendo erroneamente scambiato questa per l’altra. La quale ha invece prodotto un sistema di pensiero, quello illuministico, che può ancora essere estremamente utile per fare funzionare l’attuale contesto sociale. Anzi, secondo Mordacci, la fase storica attraversata dalla prima modernità è molto simile a quella contemporanea, sebbene questa sia caratterizzata dalla globalizzazione e dall’accelerazione dei fenomeni sociali. Dunque, sembrerebbe, secondo tale autore, che oggi sia possibile applicare con ottimi risultati i principi che appartengono al pensiero illuminista del Settecento. 

 

Mordacci, poiché trascura gli effettivi processi evolutivi della società, ignora però il fatto che la prima modernità è stata una fase estremamente differente rispetto a quella attuale, perché è stata una fase nella quale il potere era saldamente nelle mani di un gruppo sociale potente come l’aristocrazia. La stragrande maggioranza delle persone viveva in una condizione di estrema indigenza ed era esclusa da qualsiasi possibilità espressiva. Era cioè semplicemente parte del popolo e aveva come principale preoccupazione la sopravvivenza. Ci sono voluti diversi secoli perché l’idea di modernità si diffondesse in maniera omogenea nella società e venisse condivisa, grazie a quell’intenso sviluppo industriale e commerciale che ha consentito un progressivo miglioramento delle condizioni di vita di tutte le persone. E ha consentito di attraversare diverse fasi, ciascuna delle quali è stata determinata dall’introduzione di una qualche tecnologia. Si pensi, ad esempio, a cosa ha comportato per le condizioni di vita l’arrivo delle macchine nelle fabbriche o delle apparecchiature per la stampa nella vita sociale. Ora siamo di fronte all’impatto generato da tecnologie ancora più potenti, come il personal computer e le reti informatiche, e dobbiamo parlare pertanto di ipermodernità. 

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La condizione neomoderna
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Viaggio a Cuzco

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Inseguiamo gli Ukuku nella Plaza de Armas di Calca, un piccolo pueblo nel “Valle Sagrado” degli Incas che si apre tra le montagne a una decina di chilometri da Cuzco. Sono coperti di una veste di lana a trecce bianche e rosse, divise in due fasce lungo il corpo fino ai piedi. Al volto hanno dei passamontagna di lana con un naso a punta, gli occhi cerchiati. Un’aria di angeli o di demoni. Sono in realtà i figli del ghiacciaio sacro, quello di fronte al quale ogni anno per la festa della Mamacha Assunta (in quechua il suffisso cha viene usato come vezzeggiativo) in maggio vanno a dormire dopo aver danzato continuamente. Rappresentano un mondo a metà tra gli animali e gli umani, parlano in falsetto tra di loro e danzano al suono dei tamburi e dei flauti, strumenti per eccellenza degli Incas. Adesso in piazza si muovono velocemente, sono uomini e donne, anche se indistinti nei loro costumi. Sono una specie di confraternita dedita al culto delle presenze che popolano ancora fortissime il paesaggio del mondo andino. Ne sono l’espressione più pura, più ascetica, meno turistica. Emanuele Fabiano è un antropologo italiano che è venuto a vivere a Urubamba e ha sposato una indigena, Yenny e ha da poco finito un documentario sugli Ukuku, che la tv svizzera italiana ha trasmesso non molto tempo fa, Il Signore di Quylluriti

 

Sono la confraternita incaricata di fare le offerte al ghiacciaio di Quylluriti: in passato erano quelli che portavano giù fino alla Plaza de Armas di Cuzco degli enormi blocchi di ghiaccio sulle spalle. Depositati in piazza, la prima goccia che si distaccava decretava l’inizio della grande festa di maggio. Oggi è proibito farlo perché il ghiacciaio si è molto ridotto. Ma il loro pellegrinaggio continua ad aprire gli altri. Emanuele dice che più gli Ukuku si allontanano dalla valle e si avvicinano al ghiacciaio e più la loro anima inca viene fuori e quella cristiana sfuma. Più salgono verso i seimila e più diventano esseri animali. Per questo parlano in falsetto, perché la loro natura è ibrida, non solo umani, ma neppure completamente animali. Si dice siano nati dall’incrocio tra un umano e un lama o un orso cogli occhiali (Ttemarctos Ornatus). È così che parlano tra di loro alpaca e lama e altri esseri, lepri d’altura e perfino i puma, l’animale sacro per eccellenza degli Inca. Alcuni di loro hanno attaccato alla schiena dei piccoli lama di lana, altri dei piccoli Ukuku, dei piccoli sé stessi. È l’alter ego che li accompagna e che viene presentato alla gente quando si chiede un po’ di chicha di mais da bere o qualcosa da mangiare. 

 

 

L’insieme delle maschere qui nel Valle Sagrado ha un aspetto di totale travestimento. Perfino le donne si travestono da donne con maschere di donne, alcune invece sono in gonna e blusa tradizionale, ma hanno il volto coperto da un fazzoletto nero – sono le donne nere, le schiave che gli spagnoli costrinsero a lavorare per loro nei campi e nelle miniere. E poi ci sono i bianchi, la loro caricatura in maschere dai lunghi nasi, spesso pelosi, calvi, che danzano con la bibbia in mano, il loro strumento di tortura preferito. Nathan Wachtel, nel suo La visione dei vinti ha lavorato a lungo su queste maschere queste danze, sul loro riassumere e rievocare la conquista e la resistenza india ad essa. Tra i gruppi di danza ce n’è uno che rappresenta gli indigeni dell’amazzonia, un altro con maschere di facce deformate e gialle, la bocca a o, sono gli indios che si sono presi la malaria andando a lavorare in amazzonia e che hanno una guancia deformata dal “bolo” di coca che masticano continuamente. Con Emanuele e suo figlio vivacissimo di cinque anni ci infiliamo tra un gruppo e l’altro. “Unu” questo è il nome quechua del bambino – significa acqua – tra qualche giorno avrà il suo primo taglio di capelli, che è un momento fondamentale nella crescita di un bambino. Ad esso partecipa tutta la comunità che taglia una piccola ciocca per ogni padrino membro di essa. Siamo invitati al “corte” al taglio, ci sarà da mangiare, da bere chicha, da ballare. 

 

Più tardi, verso il tramonto, dopo che gli Ukuku si sono rifocillati (son due giorni che danzano continuamente) nella casa di un amico della confraternita, saliamo su un camion che ci porta a Urco, un tempio inca, al centro del Valle Sagrado. Sul camion dove stiamo fitti in piedi o gli Ukuku arrampicati sulle sponde si continua a suonare e a parlare in falsetto – lo fanno quando sono mascherati (con una naturalezza assoluta passano dal falsetto al tono normale appena si tratta di questioni pratiche, come attaccare una scala al camion o aggiustare uno strumento). Arriviamo a un tempio circolare in mattoni su una collina. È uno dei posti sacri, tantissimi, che costellano questa valle, sovrasta i resti più ampi di una costruzione di pietra dalle caratteristiche finestre svasate dell’architettura inca. Il tempio guarda una montagna ripida dietro cui durante il giorno appariva la sagoma della “Veronica” il ghiacciaio a seimila metri. Dietro di noi la valle si restringe. Siamo protetti tra due sponde di montagne. Gli Ukuku entrano con strumenti e bandiere nel tempio circolare e cominciano a danzare in cerchio. La luce del giorno si affievolisce. Qui, a tremila metri il passaggio tra giorno e notte è rapidissimo. Ma c’è ancora luce. Quando smettono le danze, il gruppo si sposta in uno spazio erboso circondato da mura, parte del tempio più sotto e in circolo si inginocchia in silenzio. 

 

 

È a questo punto che comincio a sentire, vagamente il qui dell’essere nel Valle Sagrado. Per gli inca, ma per tutte le popolazioni precolombiane il paesaggio è una fitta rete di presenze. Cuzco è ancora il centro sacro di un paesaggio da cui si diramano a raggi migliaia di huacas, di luoghi sacri, sorgenti, ruscelli, pietre dalla forma particolare, ombre, lomitas, piccole alture, montagne, gli “apu” che sono i veri dei di questo mondo al punto tale da essersi tramutati nelle vergini adorate nelle chiese e nelle feste che con il loro mantello simulano le montagne stesse. D’altro canto vivere di fronte a queste montagne, essere installati in questa valle che offre tutte le meraviglie del mondo in termini di risorse e culture ( è un biotopo costruito sapientemente dagli Incas come macchina per l’abbondanza agricola) non può che dare questo tipo di cosmogonia. Però se uno non ci si trova dentro non capisce cosa doveva essere e cosa è questa religione spazio-temporale, fatta di stelle e stagioni, ma anche di andenes, di terrazze da coltivare a spalliera fin sulle cime. È una religione di presenze, un sentire i luoghi come principi personali con cui interagire in rispetto e venerazione e spesso in timore reverenziale. Non si tratta qui di un’interpretazione alla Tylor, il “numinoso inesplicabile” trasformato in divinità, ma di qualcosa che solo i popoli in stretto connubio con un luogo hanno conosciuto e conoscono. Penso a Piero Zanini e a una discussione che abbiamo da anni che parte, dice lui, da qualcosa che ho detto io.

 

Mi sono chiesto una volta “uno cosa deve fare di fronte a un paesaggio?” e la risposta è che c’è un imbarazzo di noi contemporanei di fronte a un luogo bello, a una veduta, a un “patrimonio” naturale. Cosa devo fare? Prendo il telefono e scatto una foto, faccio un selfie, catturo lì su uno schermo qualcosa che io non sono capace di catturare. Ma questo gesto, oggi così diffuso è una forma di imbarazzo. I più scaltri dicono che fanno meditazione, una parola passe-partout per un silenzio salutare. Ma quello che ci manca è una forma dialogica. Nel Valle Sagrado i luoghi sono presenze, lo erano per gli inca, ma in qualche modo è difficile sfuggire al loro “spell”, al loro incanto, una parola strana che però indica l’influenza che un luogo può avere su di noi, il farci sentire che c’è qualcosa che va ascoltato, di fronte al quale bisogna porsi come se ci fosse un principio personale, quasi intenzionale. È difficile esprimere questo con i nostri concetti, proprio perché l’estetica del paesaggio è di una povertà autoreferenziale che ci ostruisce la vista. “Le montagne non sono belle”, c’è qualcos’altro in esse, nelle cime innevate, nelle valli che si estendono pacifiche sotto dei formidabili picchi. La ritualità degli Ukuku è una forma del fare dialogico col paesaggio, è l’attivazione di un dialogo tra presenze, la trasformazione reciproca di due presenze nello stesso luogo. Altrimenti come spiegare la cura, la minuzia, la conoscenza dettagliata dei processi agricoli correlati con quelli astronomici e stagionali, la cura di ogni singola zolla sulle pendici di montagne ripidissime. Machu Picchu, la visione india sarebbe pura cartolina al di fuori di questa vaga intuizione, che però per gli andini di oggi non è così vaga. Cuzco, il Valle Sagrado, la quantità immensa di presenze costruite dai popoli precolombiani sono il risultato di una cultura montanara fortissima. Vorrei che Piero Zanini fosse qua perché lui da montanaro queste cose le capisce molto più di me e soprattutto le sente. 

 

 

Quando sono calate le tenebre, gli Ukuku intonano un canto acutissimo accompagnato ai flauti. La giornata si spegne in un silenzio che è la protezione che le montagne che abbiamo intorno ci danno. Una culla di stelle con la luna a barchetta di chi sta sotto l’Equatore.

 

Quando il giorno dopo il recorrido con gli Ukuku, Emanuele ci affida a un amico antropologo di Cuzco, Bertin, che ci porta in giro per il Valle Sagrado, si apre un altro spiraglio. Le rovine che vediamo, i magnifici enormi muri pre-inca vicino al Cuzco, e poi le fortezze, i templi, come dice Bertin, sono stati “destrozados”. Noi le vediamo come rovine, ma lo sono diventate così perché qualcuno le ha fatte saltare in aria, le ha distrutte volutamente, ha scalpellato ogni scultura e bassorilievo. La distruzione sistematica capeggiata dai domenicani dell’inquisizione è stata atroce. Una cultura immensa come quella dei popoli andini, una cultura che era fiorentissima nel 1500, che aveva costruito 190 città che somigliavano a Machu Picchu e qualcosa di immenso come il Cuzco, viene distrutta nel giro di vent’anni. Se quello che ci è pervenuto è ancora così ingente, cosa doveva essere la sua presenza viva, in monumenti, muri, città , maniere di abitare?. È proprio un’operazione di puro etnicidio, lo si è detto più volte, ma non ci si rende mai abbastanza conto di quale tipo di censura totale sia stata operata nei confronti di un mondo intero. Oggi degli Incas, scomparsi non più di seicento anni fa, non sappiamo quasi nulla, tutto è stato scalpellato, coperto, fatto saltare in aria. Come se nell’Italia del 500, del Rinascimento, una cultura estranea e ostile e armata fosse arrivata improvvisamente e avesse fatto esplodere il novanta per cento di architetture, pitture, città, saccheggiandone le ricchezze per solamente scioglierle in lingotti. E quello che è successo qui, qualcosa per cui spagnoli, domenicani ed europei rimarranno imperdonabili. Oggi quello che sappiamo degli Inca e dei popoli preincaici è legato all’archeologia, allo scavare per ritrovare tombe, come se qualcuno oggi per capire il Rinascimento cercasse di farlo attraverso le tombe e non attraverso Caravaggio o Michelangelo. Sono le cronache spagnole che ci spiegano cosa erano gli Incas, secondo una lettura difettata da una visione eurocentrica, ma anche dalla resistenza culturale andina che ha nascosto una parte, una buona parte dei suoi contenuti ( oggi si parla addirittura di una scrittura scomparsa, attivamente fatta scomparire). 

 

 

Quando la sera rientriamo al Cuzco, le sue strade ripide e perfettamente pavimentate in basole nere, la sua quasi umoristica maniera di porsi nei confronti di alture e rilievi del terreno mi consola. Questa visione montanara di una città è un’altra forma di resistenza. Una città così gli spagnoli non potevano costruirla ma solo occuparla. La prima cosa che essi cercarono di fare era di forzare tutte le popolazioni a stare in luoghi piani, controllabili. Gli andini invece vivevano e vivono tutt’ora in comunità sull’altipiano a quattromila metri. Ancora si sente la loro capacità di sistemarsi “comodi “tra vette innevate di piantarci le loro ragioni. È il senso consolatorio che ti prende quando, a Machu Picchu, senti che tutto sommato poteva essere un posto piacevole per viverci, perché protetto dalla capacità di abitare così in alto. 

 

Per ora è tutto, vado a dormire con lo smarrimento dovuto al soroche, quel mal d’altura che a me non montanaro dice qualcosa che ancora non intendo che si trasforma in sogni strani, voglia di masticar coca e strano affanno – e non è solo l’affrettarsi del cuore e del respiro, c’è il fatto di essere cosciente che io “non ci arrivo”.

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Made in Italy

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Oggi il concetto di made in Italy è di complessa definizione. Letteralmente, un prodotto è “made in Italy” se viene costruito in Italia. Ma nell’attuale epoca sociale dominata dalla globalizzazione economica e dalla delocalizzazione produttiva esistono diverse percentuali possibili di realizzazione di un prodotto in un Paese. E non è facile riuscire a stabilire fino a quale percentuale sia possibile considerare un prodotto effettivamente “made” in quel Paese. Generalmente si tende a ritenere che un prodotto appartenga alla categoria del made in Italy se viene costruito in prevalenza in Italia. E per estensione possiamo considerare dunque il made in Italy come l’insieme dei prodotti il cui processo produttivo viene realizzato per la maggior parte nel nostro Paese.

 

Ma che dire della celebre Moka Bialetti, la cui produzione dal 2010 è stata interamente trasferita in Cina? Possiamo ancora considerarla un simbolo del made in Italy? E che dire degli abiti proposti dalle aziende e dagli stilisti italiani, che da tempo vengono in larga parte realizzati, per ragioni di costi, in Paesi stranieri? In questi casi siamo di fronte probabilmente ancora a dei prodotti made in Italy. Si tratta di prodotti di successo e dunque è evidente che alla fine anche ai consumatori non importa molto di dove il made in Italy venga realizzato. Quello che interessa loro, semmai, è di poter disporre di nuovi prodotti. Cioè di non dover trovare i simboli del made in Italy solamente andando a rovistare nel passato, nei mercati del vintage e della nostalgia. È evidente però che ormai da diverso tempo non accade più che delle nuove icone del design made in Italy ottengano un notevole successo sul mercato.

 

Questa perlomeno è la convincente tesi che viene sostenuta, nel volume Le caffettiere dei miei bisnonni. La fine delle icone nel design italiano (UTET), dalla studiosa e docente di design Chiara Alessi. La quale cerca anche d’indagare le molteplici ragioni che hanno portato allo sviluppo di questo fenomeno. Come ad esempio il fatto che negli scorsi decenni sono state prodotte numerose icone, con il risultato che oggi probabilmente ci troviamo in una situazione di “sovraffollamento iconico” nella quale i nuovi prodotti incontrano delle difficoltà ad emergere. Oppure la crescita nelle società contemporanee di un orientamento verso il “presente continuo”, cioè verso una compressione e una omologazione del tempo e dello spazio. Ne deriva che si rende difficoltoso per qualsiasi prodotto entrare sul mercato e caratterizzarsi come qualcosa che è dotato di una natura differente. I nuovi oggetti dunque tendono a inseguire le mode del momento e «sono troppo intrappolati nel loro presente per essere icone» (p. 121). 

C’è però un fattore che è fondamentale nel mancato sviluppo odierno di icone del design italiano e su cui il libro di Chiara Alessi sembra non interrogarsi a sufficienza: il radicale cambiamento in corso del modello produttivo adottato dal sistema economico.

 

I prodotti del design italiano erano infatti delle invenzioni che venivano generate all’interno di un ambiente tecnologico di natura sostanzialmente meccanica. Dunque, come affermava il designer Vico Magistretti, potevano essere facilmente «raccontati al telefono». E venivano realizzati da piccole fabbriche artigianali o poco più. Ma oggi ciò non è più possibile. Un’icona del design odierno, ad esempio, è l’iPhone, che la Apple è riuscita a vendere in una decina d’anni in oltre un miliardo di esemplari, ma la cui realizzazione è stata resa possibile da un mostruoso investimento economico in ricerca e sviluppo, in parte sostenuto dallo Stato americano.

 

Perché un’icona del design deve essere sicuramente piacevole e memorabile sul piano estetico, ma deve anche saper funzionare efficacemente. Deve cioè essere in grado di fornire al consumatore delle prestazioni che lo soddisfino. Era così per la Moka Bialetti, in grado di fornire un ottimo caffè domestico, e lo è ancora oggi. Attualmente però, nell’era del digitale, le prestazioni richieste dai consumatori ai prodotti sono decisamente più numerose e sofisticate. E poche realtà aziendali possono permettersi di arrivare ai livelli d’investimento necessari a creare un’icona dei nostri giorni. La stessa Apple, d’altronde, ha lanciato il suo iPhone nel 2007 e da allora non è più riuscita a replicare con altri prodotti il grande successo ottenuto da questo smartphone. 

Interrogarsi sulla crisi delle icone del design italiano, come fa Chiara Alessi, può sembrare un esercizio di scarsa utilità. Ma l’Italia, che non dispone di materie prime importanti e non possiede le grandi imprese in grado di sostenere gli investimenti economici in ricerca e sviluppo necessari a dare vita a delle nuove icone, deve necessariamente porsi questa questione. Deve chiedersi cioè come possa competere con gli altri Paesi in uno scenario in cui il modello produttivo prevalente è notevolmente mutato. E in cui, allora, occorre probabilmente riuscire a reinventare il concetto stesso di icona del design.

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L’albero delle castagne, amare

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Sacramentano i milanesi, perché gli gibollano le carrozzerie: in questi giorni di primo autunno i frutti dell’ippocastano (Aesculus hippocastanum) vengon giù con botti fragorosi. Ma io sto dalla sua parte: girino alla larga e non lo molestino posteggiandogli sui piedi. È un tipo solido, forte di tronco, alto di palco, infonde sicurezza da ogni ramo, vigore da ogni gemma, grossa e protetta da perule vischiose. A maggio, pure le pannocchie florali, erette, impettite all’apice delle fronde, danno un’idea della personalità e del carattere di questo individuo arboreo arrivato a Vienna dall’Europa Orientale nel XVI secolo.

 

 

È poi a Parigi nel 1615, per merito di Bachelier, e nel 1633 in Inghilterra, dov’è tenuto in gran conto per le sue qualità paesaggistiche. In Italia lo introduce il medico e botanico Mattioli nel 1557, ma da noi mostra difficoltà a naturalizzarsi (non ci sono boschi di ippocastani) e si deve accontentare dei viali e dei parchi cittadini del centro-nord. Non proprio la situazione ideale per uno che ha bisogno di spazio per mostrare al meglio il suo portamento fiero e distendere la densa chioma piramidale. Così in città, quando non è attaccato dalla Guignardia aesculi– un fungo responsabile dell’antracnosi dell’ippocastano che, anche nel pieno del rigoglio, lo arrugginisce – esposto agli agenti inquinanti e a substrati salini non idonei, è facile bersaglio del «bruciore non parassitario» che arrossa i margini fogliari e ne dissecca le lamine.

Nella poesia Cuore di legno (1984, in Ad ora incerta), Primo Levi ci ha dato il ritratto di un esemplare torinese, in postura alquanto scomoda e in un contesto di disagio ambientale: 

 

 

Il mio vicino di casa è robusto.

È un ippocastano di corso Re Umberto; 

ha la mia età ma non la dimostra.

Alberga passeri e merli, e non ha vergogna,

in aprile, di spingere gemme e foglie,

fiori fragili a maggio,

a settembre ricci dalle spine innocue

con dentro lucide castagne tanniche.

È un impostore, ma ingenuo: vuole farsi credere

emulo del suo bravo fratello di montagna

signore di frutti dolci e di funghi preziosi.

Non vive bene. Gli calpestano le radici

i tram numero otto e diciannove

ogni cinque minuti; ne rimane intronato

e cresce storto, come se volesse andarsene.

Anno per anno, succhia lenti veleni

dal sottosuolo saturo di metano;

è abbeverato d’orina di cani,

le rughe del suo sughero sono intasate

dalla polvere settica dei viali;

sotto la scorza pendono crisalidi

morte, che non saranno mai farfalle.

Eppure, nel suo tardo cuore di legno

sente e gode il tornare delle stagioni.

 

 

Ma, in condizioni ottimali, l’ippocastano è longevo e campa fino a 200 anni. È apprezzato per l’ombra garantita dal precoce sviluppo delle grandi foglie, composte da cinque-sette segmenti obovati convergenti sul picciolo come le dita sul palmo della mano, ed è uno degli alberi da fiore più imponenti, per questo coltivato come essenza ornamentale, anche nelle varietà a fiori rossi o rosa (Aesculus carnea), di dimensioni ridotte e più lente nella crescita (e più resistenti alle micopatie), risultato degli incroci con la specie nordamericana Aesculus Pavia. Scenografiche le infiorescenze a cono lunghe un paio di spanne: portano molte profumate corolle, grandi poco meno di tre centimetri, con cinque petali bianchi (o rosa) spruzzati di giallo o di porpora alla base, e con al centro sette stami sporgenti dalle antere ocra. I frutti li riconosciamo tutti: simili alle domestiche castagne ma più globosi e con un grande ilo grigio alla base, custoditi, spesso in coppia, da una capsula dagli aculei più radi e meno pungenti dei ricci del nostro sativo. Ricche di fecola, queste castagne amare non sono commestibili per l’alto contenuto di saponina. Cotte, e in giuste dosi, erano usate come stimolanti per i cavalli bolsi (da cui il nome); tutt’ora, ridotte in farina, sono un ingrediente dei mangimi zootecnici. 

 

 

Dicevamo degli inglesi che ne hanno presto capito e goduto i pregi; nella loro letteratura alberi e fiori han sempre un posto di riguardo. L’ippocastano ha il suo nel romanzo di Charlotte Brontë Jane Eyre: è sulla panca circolare sotto l’ippocastano gigante del parco della tenuta di Thornfield che Jane e Mr Rochester si siedono per il colloquio che si crede d’addio e sfocia, invece, in una dichiarazione d’amore. Ma i segreti di Mr Rochester incombono sulle volontà e sui desideri di entrambi, e l’albero scelto come testimone di fede promessa diviene annuncio di una separazione e di una rovina prossima, di un amore che va purificato con un fuoco che non sarà quello della passione:

 

cosa tormentava l’ippocastano? Si torceva e si lamentava, mentre il vento mugghiava lungo il viottolo degli allori e soffiava violento sopra le nostre teste.

«Dobbiamo rientrare», disse Mr Rochester, «il tempo sta cambiando. Fosse dipeso da me, sarei rimasto qui con te fino a domani mattina, Jane».

«Anch’io,» pensai, «sarei rimasta con te». E forse l’avrei detto se un lampo livido e accecante non fosse guizzato fuori dalla nube che stavo guardando e se non fossero seguiti uno scoppio, uno scroscio e un sonoro rimbombo; pensai solo a nascondere i miei occhi abbagliati contro la spalla di Mr Rochester. […]

Il mattino dopo, mentre ero ancora a letto, la piccola Adèle entrò di corsa in camera mia per dirmi che, durante la notte, il grande ippocastano in fondo al frutteto era stato colpito dal fulmine e spaccato a metà. 

 

 

Dopo qualche giorno, questa è la scena che si presenta agli occhi di Jane:

 

In fondo al vialetto degli allori, mi ritrovai di fronte al relitto dell’ippocastano: si ergeva nero e spezzato, e il tronco, spaccato a metà, era una spaventosa bocca spalancata. Le due metà non si erano separate del tutto perché la solida base e le radici resistenti le tenevano unite, in basso; ma la loro vitalità era andata distrutta, la linfa non poteva fluire più: da entrambi i lati, i grossi rami erano morti e le tempeste del prossimo inverno avrebbero di sicuro fatto cadere a terra una delle due parti, se non entrambe. Eppure, per ora, quei due monconi avevano ancora la forma di un albero – una rovina, ma una rovina ancora in piedi.  

 

Che dite: meglio schiantarsi così, dopo una vita felice in un parco inglese, immortalato da una grande storia d’amore, o intossicarsi poco a poco nel viale di una città del nord Italia? 

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Manuale di volo

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L’immagine sul monitor è granulosa, sbiadita; si intravedono una linea di colline, un lago, qualche cespuglio, un uomo ripreso di spalle, maglia e pantaloni scuri: stende le braccia, le batte come le ali di un uccello, fa un salto. L’atterraggio, un metro più avanti, è goffo, ridicolo. E ricomincia: salta, agita le braccia, ricade incespicando. La performance Tentativo di volo– filmata da Gerry Schum nel 1970 per il suo documentario Identifications– è tra le più note di Gino De Dominicis, figura quintessenziale del paesaggio artistico italiano dello scorso fine secolo. Lo slapstickè il modo con cui De Dominicis si appropria, rovesciandola comicamente, di una tenace mitologia artistica moderna, il superamento dei limiti fisici, l’elevazione verso uno spazio estetico-politico posto al di là dell’immediato presente.

 

Gino De Dominicis, Tentativo di volo, 1970

 

Ma il Tentativo, come ha notato Michele Dantini, è anche la puntuale parodia di quel Salto nel vuoto (1960) con cui Yves Klein celebrava il suo singolare ingresso in uno “spazio” dell’arte tutto immateriale e mentale, così come un altro lavoro di De Dominicis, Il tempo, lo sbaglio, lo spazio (1970) – uno scheletro umano steso al suolo con dei pattini a rotelle ai piedi, che con una mano porta al guinzaglio lo scheletro di un cane e con l’altra regge in bilico un’asta verticale –, espone il rovescio immobile e mortale del mito della velocità, abbattendo ironicamente il pattinatore dotato di paracadute impersonato da Robert Rauschenberg nella performance Pelican (1963).

 

Robert Rauschenberg, Pelican, performance, First New York Theater Rally, New York, 1965

 

Quest’ultima opera, come le prime due , è visibile ora in L’Envol,ou le rêve de voler, l’esposizione in corso (fino al 28 settembre) alla Maison Rouge, che conclude, dopo quattordici anni, le attività dello spazio parigino. Compendio degli interessi e del gusto che hanno segnato tutto il programma precedente, la mostra si presenta come un assemblaggio tematico, una campionatura eclettica più che un percorso storico. Il volo, in questa prospettiva, è anzitutto una piega dell’immaginario, un atto metaforico, un “possibile” da esplorare col corpo, i sensi, la tecnica, l’utopia, il sogno. L’allestimento si sottrae dunque a qualsiasi linearità cronologica, preferendo accostamenti e contrapposizioni spesso studiate per generare il massimo effetto sorpresa. Luna (1968), un ambiente chiuso e in penombra, dal pavimento ricoperto con uno spesso strato di granuli bianchi di polistirolo, in cui Fabio Mauri prefigurava lo sbarco sul nostro satellite, corona così un percorso in cui si possono incontrare l’improbabile macchina per volare di Gustav Mesmer, inventore e paziente psichiatrico ossessionato dal sogno del volo, il prototipo Letatlin (1929-32, ricostruito nel 1991), a metà strada tra invenzione leonardesca ed exploit tecnologico, del costruttivista sovietico Vladimir Tatlin, le inquietanti appendici piumate di Rebecca Horn, o i modellini volanti di elicotteri che sciamano come insetti nel video di Roman Signer 56 kleine Helikopter (2008).

 

Vladimir Tatlin, Letatlin, 1929-32, ricostruito nel 1991

 

I momenti più singolari e intensi di L’Envol sono quelli in cui il tema è sviluppato in sensi meno letterali, dove il volo diviene elevazione spirituale, o spiritista, delirio visionario, danza, allucinazione. In linea con la passione per l’art brut e le figure marginali e idiosincratiche che ha sempre caratterizzato il programma della Maison Rouge, questi passaggi sono spesso affidati a outsiders come Friedrich Schröder Sonnenstern (1892-1982), i cui pastelli colorati sono stati molto amati dai surrealisti, lo statunitense Henry Darger (1892-1973), con i fantastici acquarelli tratti dalla sua sterminata e delirante raccolta postuma In the Realms of the Unreal, o le multicolori evocazioni di apparizioni di UFO di Melvin Edward Nelson (1908-1992).

 

Friedrich Schröder-Sonnenstern, Der Friedens Habich, 1960

 

Altri autori di profilo similmente irregolare si situano in un territorio a cavallo tra delirio privato, utopia umanista e immaginario tecnologico. Come Karl Hans Janke (1909-1988) ad esempio, ospite per decenni di istituti psichiatrici tedeschi, eccentrico progettista di gigantesche e inverosimili macchine volanti destinate a trasportare centinaia di passeggeri, e autore di visioni cosmogoniche fissate in disegni e gouache di grande suggestione. O come Adolf Wölfli, una delle prime e più note figure dell’art brut – il suo lavoro fu fatto conoscere, tra gli altri, da Jean Dubuffet e da Harald Szeemann, che lo espose a documenta 5 nel 1972 –, i cui grandi disegni minuziosamente eseguiti, come in mostra la grande veduta a volo d’uccello di una città con mura e torrioni, fanno parte della sua sterminata e visionaria autobiografia immaginaria. Non mancano tuttavia opere di autorship più collaudata, come l’installazione How Can One Change Ourself (2010-18) di Ilya ed Emilia Kabakov, già vista di recente al MAXXI di Roma, teatro di un’esistenza sospesa tra progetto di fuga e rêverie, la performance in pallone di Otto Piene (Sky Kiss-Linz, 1982) o la molle e carnale massa sferica in caucciù di Nobuko Tsuchiya (11 Dimension Project 2, 2011). 

 

Fabio Mauri, La Luna, 1968


E tuttavia, benché suggestive, queste e altre scelte ancora appaiono in gran parte solo incidentalmente legate al tema, per lo più per via iconografica, ma senza che questo dia luogo a ragionamenti o indagini di ordine più generale, ad esempio in direzione di una migliore comprensione dei modi con cui l’immaginario del volo si è evoluto attingendo tanto alla tradizione artistica vera e propria che alle fonti della cultura popolare o all'illustrazione tecnica, oppure guardando con spirito più critico al peculiare fondo psichico e antropologico attivo nelle rappresentazioni, specie nel caso dei numerosi outsiders presenti in mostra. L’atteggiamento di fondo – in questa come in gran parte delle mostre che hanno segnato l'attività della Maison Rouge – è e rimane in effetti, con le sue virtù e i suoi limiti, quello della scelta idiosincratica, della predilezione collezionistica per l’eccentrico, il raro, l’inusuale. Un atteggiamento di cui Walter Benjamin fissò in un saggio famoso, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), il profilo eminentemente moderno, che va alla ricerca di sempre nuovi oggetti nei «territori estremi» in cui le vecchie distinzioni (high artart brut, colto e popolare, elitario e di massa, ecc.) perdono valore, e la collezione stessa, da tesoro privato diviene oggetto pubblico. 

 

Come altre che l’hanno preceduta negli stessi spazi, L’Envol presenta in effetti il mondo, la sua storia, come una democrazia magica, anarchica, illimitata, senza conflitti e senza negativo, dove lo spettatore-consumatore si sente libero di cedere alla meraviglia, libero da ogni pedagogia, libero di immaginare, evadere, godere: si può guardare tutto e dimenticare tutto. Un confronto immediato è con un’altra mostra, di ben più ampie proporzioni e ambizioni, in corso a Parigi in queste settimane: UAM. Une aventure moderne (Centre Georges Pompidou, fino al 27 agosto), dedicata alle origini e alle vicende della Union des Artistes Modernes, il gruppo-faro del modernismo francese. Con i suoi nomi eccellenti, da Eileen Gray, Le Corbusier, Mallet-Stevens, a Charlotte Perriand e Jean Prouvé, la mostra è ricchissima di opere, modelli, immagini, documentazione, che misurano anno dopo anno l’evoluzione di architettura, design e arti decorative in Francia, dal gusto Art Nouveau del primo decennio del XX secolo al razionalismo modernista di cui il gruppo UAM, fondato nel 1929, fu tra i maggiori interpreti.

 

Robert Mallet-Stevens, Ingresso della III Exposition de l'Union des Artiste Modernes, Paris, 1930

 

Nella mostra, il film di Man Ray Les Mystères de  Château du Dé, girato nel 1929 nella Villa Noailles a Hyères, progettata da Robert Mallet-Stevens per la coppia di facoltosi mecenati Charles e Marie-Laure de Noailles, è forse l’inaspettato momento di sintesi tra le diverse sfaccettature del movimento moderno francese. Forse nessuno come il grande artista surrealista è riuscito infatti a catturare con più sottigliezza la singolare mescolanza di formalismo, lusso, erotismo ed ennui che in Francia segna molti aspetti del modernismo tra anni Venti e Trenta, un momento storico in cui le spinte alla trasformazione sociale e alla palingesi politica, la severità e frugalità connaturate al messaggio dell’avanguardia si stemperano in una versione al tempo stesso purificata ed edonista, in cui le linee raffinate degli edifici e degli oggetti di design si caricano di un’eleganza insieme fredda e sensuosa.

 

Forse per questo, pure con tutta la sua ricchezza di spunti storici e culturali, la presenza di rari e straordinari originali, la sua compostezza didattica, al di là della stessa indiscussa grandezza dei suoi protagonisti, la mostra non riesce a ripensare l’utopia modernista se non come celebrazione di se stessa. Resta freddamente racchiusa nelle proprie geometrie, nei pattern eleganti, nell’accumulazione delle superfici levigate di acciaio e vetro di oggetti e architetture, simili a splendidi, algidi testimoni di un tempo non ritrovato.

 

 

Alla fine, pur con tutti i suoi evidenti difetti, occorre però riconoscere a L’Envol una qualità dolorosamente assente in troppe mostre recenti, piccole e grandi. La capacità cioè di attingere a immagini considerate come eventi in sé, più che come supporti di petizioni moraliste o di schedature erudite. Immagini che sembrano essersi imposte quasi già fatte a chi le ha realizzate, per quanto strane, perturbanti, impreviste, non evolute, e che a dispetto della loro sempre contingente, storica e dialettizzabile novità, appaiono pretendere da chi le guarda anzitutto il riconoscimento, sempre in bilico tra adesione irragionevole e clinico distacco, del loro essere impreviste e imprevedibili.

 

La dolce vita, 1960

 

L’immagine che riassume tutto questo è anche la prima in cui si imbatte lo spettatore, la proiezione della celebre, folgorante sequenza iniziale de La dolce vita di Federico Fellini, in cui una grande statua di Cristo sorvola appesa a un elicottero la città di Roma, dalla campagna con i ruderi degli acquedotti romani ai nuovi palazzoni della periferia moderna fino a San Pietro, sintesi fulminante di una paradossale, insieme euforica e malinconica, transizione dal passato al futuro. La eccezionale densità simbolica dei fotogrammi felliniani, il loro potere di convocare in forma ambivalente, ossimorica, lo spessore di una contraddizione che è insieme politica e antropologica, privata e collettiva, materiale e poetica, è precisamente ciò che folgora quel presente e seguita a riproporcene l’appassionante enigma. Come scrisse un critico dell’epoca, Pietro Bianchi, Fellini riaffermò con La dolce vita una vecchia idea cara ai romantici; che cioè in epoche di crisi, di trapasso da una civiltà troppo conosciuta a un’altra che appena si intuisce, solo l’artista riesce a conferire coerenza vitale ai fatti immotivati della realtà che lo circonda. È probabile che si debba insieme sorridere di questa ingenua fiducia e continuare a ritenerla una indispensabile possibilità.

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Il trasformismo dei ciclamini

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Come le viole dei campi, i ciclamini sono gli umili fiori dei boschi. Come quelle, reclinano il capo, non per modestia ma per diffidenza: almeno così azzarda la simbologia applicata al regno vegetale, forse per via del tubero velenosetto, saturo di saponine ma ghiotto boccone per i grifi suini, donde il didascalico nome popolare di panporcino. Anch’essi han battezzato un colore che, ciclicamente (l’avverbio è quanto mai pertinente), torna a tingere gli outfit femminili, specie d’estate quando il più profumato della famiglia, il Cyclamen purpurascens o Ciclamino delle Alpi, accende l’ombra del sottobosco. 

 

 

Quel che più mi sorprende di questa piccola erbacea perenne, imparentata con le Primule, è il miracolo di trasformismo e d’ingegneria botanica di cui è capace. Chi mai immaginerebbe che dal solitario bocciolo a forma di mezzo fuso, con i petali pressati a spirale l’uno sull’altro, sortisca un fiore volgente all’indietro cinque alucce rosa carminio (lacinie riflesse), ovvero orecchie, come preferiva chiamarle D.H. Lawrence: («And cyclamens putting their ears back», Sicilian cyclamens). Entro la corolla – una coppa perfetta, traslucida, montata su cinque sepali triangolari, venati nel verde del medesimo porpora dello scabro peduncolo che le sorregge e che manco Lalique redivivo saprebbe riprodurre – si allogano cinque stami convergenti a piramide e uno stilo sporgente dalla fauce pentagonale, lasciata scoperta dai petali riversi dove più intenso si fa il pigmento violaceo, più pregno il «gentile effluvio» (E. Flaiano, Tempo di uccidere). Sarà per questo loro particolare copricapo che i ciclamini mi paiono tanti piccoli indiani boscherecci intenti a lanciare il grido di guerra in difesa del proprio territorio. Che dire poi dell’astuzia dello stelo quando s’avviticchia su se stesso e, a mo’ di molla, piega la sferica capsula del frutto per spingerla al suolo, dov’è necessario giunga ad interrare il seme e garantire la nuova progenie (maturazione ipogea). Non meno attraenti sono le foglie: basali e carnose, stendono sul lungo picciolo una lamina cuoriforme sfumata di viola nel verso, verde e innervata di chiaro nel recto.   

 

 

Spontanei in Italia sono anche il Cyclamen repandum e il Cyclamen hederifolium (o Ciclamino napoletano); non è difficile distinguerli perché non condividono né il medesimo areale del purpurascens (le regioni dell’arco subalpino), né il periodo dell’antesi: sono infatti diffusi dal centro al sud della penisola e, a differenza dell’alpino, che fiorisce tra agosto e settembre, il repandum sboccia in primavera, l’hederifolium in autunno. Mostrano pure alcune diversità morfologiche, sia nelle foglie – ovali nel napoletano che le allunga dopo i fiori, triangolari e dentate nel repandum– sia nei fiori meno profumati, se non del tutto inodori. Per altro, le corolle del partenopeo sono pallide – trascolorano dal malva al bianco puro – e con vezzose fauci auricolate (forse da qui le «ears back» di Lawrence?). 

Non rivaleggia con questi nostri selvatici il Cyclamen persicum, definito dall’intemperante Ippolito Pizzetti «insipido, come se fosse di pezza». I suoi molti ibridi, che invadono il mercato per Natale, cercano di sopperire all’handicap con il vigore, la varietà dei colori vivaci e delle taglie, ma non restituiscono quella grazia silvestre.

 

 

È questo il momento migliore per un’escursione boschiva o montana: nelle faggete e nelle radure di soffice humus, e più su, nelle ghiaie e rocce del substrato calcareo, le macchie di panporcino annunciano la loro presenza al naso del viandante prima ancora di commuoverne gli occhi. Il mio posto dei ciclamini è il sottobosco all’orlo della Valle del Freddo, luogo magico di bocche gelide e rare peonie selvatiche. 

Quello di Antonia Pozzi era la Valsassina: a Pasturo, ai piedi della Grigna Settentrionale, il 17 luglio 1929 dopo una camminata in cerca di ciclamini, scriveva una poesia di plastica energia vitale e di tensione mortuaria. Qualcuno dei molti fan di Alda Merini potrebbe opporre quei versi di Ascolta il passo breve delle cose in cui la donna si dice «fatta di ombre e ciclamini, / ti chiede il tuo mistero / e tu non lo sai dare». Ma a questo fiore di sassi e di ombre non si addicono bamboleggiamenti. Le parole in versi di Antonia sono «asciutte e dure», il suo Canto selvaggio sa dell’eccesso di gioia (gioia per la vita) e dello sgomento provati sul ciglio del crepaccio, là dove si radicano i ciclamini:

 

 

Ho gridato di gioia, nel tramonto. 
Cercavo i ciclamini fra i rovai: 
ero salita ai piedi di una roccia 
gonfia e rugosa, rotta di cespugli. 
Sul prato crivellato di macigni, 
sul capo biondo delle margherite, 
sui miei capelli, sul mio collo nudo, 
dal cielo alto si sfaldava il vento. 
Ho gridato di gioia, nel discendere. 
Ho adorato la forza irta e selvaggia 
che fa le mie ginocchia avide al balzo; 
la forza ignota e vergine, che tende 
me come un arco nella corsa certa. 
Tutta la via sapeva di ciclami; 
i prati illanguidivano nell'ombra, 
frementi ancora di carezze d'oro. 
Lontano, in un triangolo di verde, 
il sole s'attardava. Avrei voluto 
scattare, in uno slancio, a quella luce; 
e sdraiarmi nel sole, e denudarmi, 
perché il morente dio s'abbeverasse 
del mio sangue. Poi restare, a notte, 
stesa nel prato, con le vene vuote: 
le stelle – a lapidare imbestialite 
la mia carne disseccata, morta.

 

Così, la sera del 3 dicembre del 1938, a soli ventisei anni, Antonia Pozzi pose fine alla sua esistenza stesa sul prato dell’abbazia di Chiaravalle. A lei che la vita la cantò al colmo e con voce ferma, «con trepido cuore a fior di mani» e «senza tristezza», offriremo il sangue delle Grigne. Sulla sua tomba, a Pasturo, porteremo dei ciclamini. 

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Gli umili fiori dei boschi
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I colori del fascismo

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Fascismo di calcestruzzo, architetture di cartolina, pubblicato da poco da Barbieri editore di Manduria, è un catalogo di cartoline che ritraggono l'architettura del Ventennio. Enrico Sturani ci offre questo «racconto visuale e scritto» – come lo descrive nella prefazione il professore catalano di architettura Josep-Maria Garcia-Fuentes – come fa solitamente, a casa sua, casa museo romano della cartolina nel quale sono raccolti 150 mila esemplari, dalle raffinatissime di fine Ottocento e primo Novecento a quelle più sperimentali e provocatorie degli artisti della mail art. Tu telefoni, e Sturani ti prepara la teca sull'argomento che hai scelto; questa volta è l'architettura fascista. Il libro è strutturato allo stesso modo della cartella, gli argomenti sono ordinati per tipo di immagine: città di fondazione, luoghi del fascio, scuole, poste, colonie, oltremare – cioè colonie in senso proprio – e via dicendo. Il racconto accompagna lo sguardo e spiega la storia di queste cartoline, il loro valore di documento storico (qualche volta in assenza di altra documentazione iconografica), con qualche incursione nella storia dell'architettura, ma sempre attraverso la raffigurazione di una cartolina. Non manca qualche aneddoto spassoso, come la storia delle bronzee foglie di fico fatte applicare da Achille Starace ai nerboruti atleti di marmo, all'ultimo momento, prima dell'inaugurazione del Foro Italico nel 1932; ma forse no: non è escluso sia stato Giulio Andreotti nel 1960 per non creare imbarazzo per le Olimpiadi di Roma. Ma c'è anche la storia del "colosseo quadrato", cioè del Palazzo della Civiltà Italiana del gruppo Lapadula all'EUR, e dell'architettura minore, cioè degli orinatoi torinesi della ditta Umberto Renzi.

 

 

La maggior parte delle cartoline raccolte è in bianco e nero: bianche e grigie sono le nuove costruzioni in calcestruzzo e la cartolina è pronta a farsene specchio, fotografia di architetture «isolate dal contesto», «solitarie», «sospese», «assolute» – scrive Sturani riprendendo la descrizione di corrispondenti cartoline tedesche che raffigurano il «modernismo bianco» in Germania (Kristen Baumann e Rolf Sachsse, Moderne Grüße. Fotografierte Architektur auf Ansichtskarten 1919-1939, Arnoldsche Verlagsanstalt, Stuttgart 2004). Ma gli architetti fascisti non volevano solo riprodurre i risultati delle ricerche europee, volevano dare alle loro costruzioni un carattere nazionale, italiano, «per esprimere le aspirazioni eterne immanenti della Razza», come afferma Marcello Piacentini nel 1941 (cit. p. 38): grandi architetture severe, davanti alle quali il cittadino deve sentirsi piccolo, meschino, impotente. Allora il monumentale, il solenne, l'enfatico, si trasforma in pesante, greve, plumbeo, ottuso (p. 41). 

 

Agli aggettivi usati dai due storici tedeschi dell'arte e della fotografia Sturani aggiunge anche l'aggettivo «metafisico», ricordando le Piazze d'Italia di De Chirico. Sotto il titolo Metafisica, nella parte iconografica, ci sono infatti cartoline un po' inquietanti che raffigurano stazioni e viali vuoti oppure percorsi da uomini soli e distanti, vedute di interni con elementi ripetitivi, particolari che, pur essendo pubblicitari, sembrano fissare per sempre l'inutilità di una tavola apparecchiata o la solitudine di un gesto. «Metafisico effetto» lo ha chiamato altrove l'autore (Cartoline dalla A alla Z, Barbieri 2013, p. 252) ed ha quindi il significato psicologico di straniamento, di smarrimento, provocato dall'atmosfera sospesa e rarefatta, invero con uno slittamento semantico rispetto alla poetica di Savinio e De Chirico.

Sturani vi aggiunge alcune osservazioni tecniche: l'effetto metafisico delle piazze e degli edifici fotografati e riprodotti in cartolina potrebbe derivare da esigenze merceologiche. Le cartoline successive agli anni Dieci erano stampate in rotocalco, non più in fototipia, con tirature superiori alla produzione precedente, e, a partire da duecento pezzi venduti, producevano reddito, ma richiedevano tempi più lunghi. Il ritocco del negativo, che ne garantiva la durata, cancellava gli elementi accidentali – i fili elettrici, i passanti, il traffico – e aggiungeva le nuvole in cielo. Il tempo appariva sospeso nelle vie e nelle piazze deserte, come nelle nuove città di fondazione, come nei quadri di De Chirico che forse – si chiede l'autore – da queste visioni aveva tratto ispirazione. 

 

Cartolina fotografica degli Archi ornamentali del Piazzale d'onore, V Triennale di Milano 1933.


Altro aggettivo che definisce parte di questa architettura in cartolina è «razionale», corrispondente al programma del Movimento Italiano di Architettura Razionale del Gruppo 7 guidato Carlo Enrico Rava e sostenuto da Giuseppe Pagano. Questo filone funzionalista, per nulla gridato né monumentale, anzi asciutto, lineare, rigoroso, lo ritroviamo nelle cartoline fotografiche che raffigurano alcune delle numerosissime Case del fascio, qualche Casa del Balilla, alcune scuole e molti edifici del settore privato. A questo rigore – Sturani lo definisce quasi calvinista – corrisponde un desiderio di anonimato che in queste cartoline in bianco e nero si realizza alla perfezione: in quasi tutte non compare né il nome del fotografo, né quello dell'architetto, una sorta di «autoritratto collettivo» di una società (p. 54), al quale contribuiscono editori, stampatori, fotografi, architetti che credono nella costruzione di una nuova Italia: la maggior parte delle cartoline infatti non è di propaganda, ma «da tabaccheria» o prodotta da privati.

 

In bianco e nero sono anche gli "interi postali" di produzione statale: cartoline postali, vendute al solo prezzo del francobollo, che presentavano in stile enfatico, sul recto, accanto allo spazio per l'indirizzo, le principali opere architettoniche del regime. Brutte cartoline, scrive Sturani, stampate con il nuovo sistema calcografico in molte centinaia di copie, su un cartoncino leggero di bassa qualità, tanto da far dubitare l'autore che possa trattarsi di propaganda. A queste faranno seguito, a partire dal 1939, le cartoline postali, più decisamente propagandistiche, violente e volgari, dedicate alle Forze Armate, affidate spesso al genio perverso di Gino Boccasile.

 

Troviamo invece interessanti cartoline tra quelle realizzate per promuovere le esposizioni e le fiere: la cartolina che fotografa il padiglione futurista all'esposizione di Torino del 1928 di Enrico Prampolini (fig. 82, p. 44) e quella che ritrae i sei archi costruiti da Mario Sironi per la quinta Triennale a Parco Sempione a Milano (fig. 117, p. 95). Sono interessanti per l'oggetto che rappresentano, ma per il collezionista sono forse più accattivanti le cartoline a colori che cominciano ad apparire all'inizio degli anni Trenta. Nel catalogo possiamo trovare due cartoline realizzate per la Mostra della Rivoluzione Fascista del 1932 dall'Istituto di Arti Grafiche di Bergamo, di Arnaldo Carpanetti e di Mario Sironi. A queste possiamo aggiungere le immagini di Dario Cella realizzate per la prima Mostra triennale delle terre d'Oltremare del 1940 a Napoli, la serie sul nuovo supporto linen che permetteva colori «acidi e accesi», dedicata al padiglione italiano a Chicago nel 1933, e molte altre che rivelano raffinate capacità grafiche.

 

Official Post Card of A Century of Progress, 1933, Chicago.


Particolare attenzione dedica Sturani alla figura di Attilio Calzavara, architetto e grafico che, nonostante il suo orientamento liberalsocialista, riuscì ad ottenere lavori dal Ministero dei Lavori Pubblici e dall'Opera Nazionale Balilla. «Gli effetti deformanti da supergrandangolo, il dinamismo di linee oblique, i gabbiani con le ali che paiono schegge, le compenetrazioni di forme, l'antidescrittivismo di un mare che va in salita, il valore cromatico-compositivo delle scritte» descrivono la cartolina futurista che Calzavara dedica alle crociere ONB (p. 63).

 

Attilio Calzavara, cartolina pubblicitaria, originale all'aerografo, 1934.


Non sono però questi i colori del fascismo. Il regime preferisce utilizzare le sfumature che vanno dal bianco al grigio scuro utilizzate nelle cartoline in bianco e nero che, come abbiamo visto, costituiscono la parte principale dell'iconografia del catalogo. Sturani dedica però un paragrafo a un architetto che rovescia questa impostazione senza rinunciare alla monumentalità. Si tratta di Angiolo Mazzoni, architetto-funzionario, ingegnere capo delle Ferrovie dello Stato che progettò e fece costruire diciotto edifici postali e tredici stazioni. Sospeso tra il richiamo al classicismo e l'attrazione del Moderno, neofuturista per un breve periodo, l'eclettico Mazzoni utilizza tutti i materiali – dal travertino ai mattoni che dispone sfalsati attorno alle colonne per ottenere l'aspetto di tronchi di palma – e tutti i colori. Per gli esterni gioca con i colori del marmo, da quello nero Portovenere a quello del cipollino delle Alpi Apuane e dell'Elba che presenta venature di diverse tonalità di verde, a quello rosso di Castellammare. Gli intonaci sono coloratissimi, famosa la stazione di Faenza «color gelatina di fragole» (fig. 308, p. 171, purtroppo la riproduzione non è a colori). Nei suoi edifici postali – osserva l'autore – si entra attraverso colonne come fosse un palmeto, altre colonne circondano laghetti con sirene. Alle pareti vi sono mosaici di Prampolini, Depero o Fillìa, vetrate policrome, lampadari di Murano e al neon, infissi di rame e di anticorodal (lega di alluminio). Una festa cromatica che Sturani sembra apprezzare, ma i colori non compaiono nelle cartoline, li dobbiamo cercare in biblioteca nel raffinato libro di FMR, dedicato ai Palazzi storici delle poste italiane (Giuseppe Strappa, Giorgio Di Giorgio et al., Milano 1996, pp. 133-134). 

 

Scalone di accesso agli uffici direzionali, Palazzo delle Poste, Palermo 1934.


Le immagini cromatiche più interessanti riguardano gli interni del Palazzo delle poste di Palermo, inaugurato nel 1934 e per i quali Mazzoni utilizza marmo rosso di Portasanta e di Trapani, marmo giallo di Mori, marmo nero del Belgio, rame e anticorodal per gli infissi, lacche rosse e nere per le porte, marocchino rosso per il rivestimento delle sedie; alle pareti le allegorie futuriste della comunicazione di Benedetta Cappa Marinetti e tele di Tato (Guglielmo Sansoni), aeropittore futurista. A questa varietà gli autori contrappongono un esterno «rigidamente impaginato secondo gli stilemi classici propri dell'architettura aulica del regime fascista» (p. 91); a me non paiono contrapposti, interno ed esterno: i colori, ad eccezione di quelli delle opere pittoriche, sono i colori dei materiali e in questa loro aderenza alle cose, al marmo, al metallo, al legno e alla pelle, aspirano all'eternità, sono costitutivi della monumentalità e della retorica architettonica. A differenza dei colori di Sironi che Renata Pampas ha definito «i colori cupi della dittatura» e che richiamano i colori severi, materici e bruniti dell'arte etrusca e medievale, i colori di Mazzoni citano i colori dell'antico impero, dello sfoggio di potere e di ricchezza in un settore dello Stato sotto suo assoluto controllo, per lungo tempo senza concorsi, nell'Italia della dittatura. Di lì a poco le sanzioni avrebbero imposto i nuovi materiali dell'autarchia: l'Italianeum, nuovo linoleum ricavato dalle bucce di pomodoro scartate dalle industrie di conservazione, l'eternit in forma di lastre ondulate all'amianto (sic), e il cemento «debolmente armato», invenzione di Pierluigi Nervi per risparmiare il ferro che serviva alla guerra (il saggio della studiosa del colore Renata Pampas si trova al sito).

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Architetture del Ventennio in cartolina
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Effetto Palomar

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L’ambiente è in penombra, le tre proiezioni emanano una luminescenza azzurra. Le inquadrature scorrono a ritmo sincopato: automobili, interni di abitazioni, facce di passanti, bambini, oggetti e apparecchi in uno studio d’artista, edifici, angoli di strade. Sono frammenti veloci, dispersi, enigmatici; la voce maschile che li accompagna ha un’inflessione stranamente monotona, trasognata. Tre lettere a Raymond Roussel (1969), uno dei lavori più suggestivi della grande mostra di Gianfranco Baruchello al Mart di Rovereto (fino al 16 settembre) si presenta come una immersione nell’esperienza onirica, di cui il caleidoscopico montaggio di found footage e riprese d’autore fornisce un magnetico equivalente. Nei tre filmati che compongono il lavoro (Limbosigne, A Little More Paranoid, La Degringolade), Baruchello associa alle immagini la sua voce – registrata al risveglio o nel dormiveglia e ancora impastata dei sogni appena conclusi e della loro inspiegabile, allucinatoria arbitrarietà – sulla base di un meccanismo casuale. Sogno e flusso di coscienza, documento e caso: sotto il segno di Raymond Roussel, l’eretico scrittore francese, grande inventore a inizio Novecento di giochi verbali e narrazioni aleatorie, Baruchello offre un’istantanea della propria vita psichica in cui affiora il ritratto di tutta un’epoca, vitale e inquieta.

 

 

La posizione idiosincratica di Baruchello nel paesaggio dell’arte europea nella seconda metà del Novecento ha solo negli ultimi anni iniziato a ricevere una più metodica attenzione critica, come testimoniato di recente dall’ampio e bel volume monografico dedicato alla produzione di film e video dell’artista (Gianfranco Baruchello. Archive of Moving Images, 1960-2016, a cura di Alessandro Rabottini e Carla Subrizi, Mousse 2017, pp. 576, € 38) e prima ancora dal catalogo Certe idee, pubblicato nel 2012 in occasione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La mostra al Mart – non una tradizionale “retrospettiva” in senso stretto, piuttosto un’ipotesi di lettura e uno scavo stratigrafico all’interno di quell’immenso giacimento che è l’opera di Baruchello – sceglie, sotto l’attenta regia di Gianfranco Maraniello, di partire dal presente, in particolare da un gruppo di nuovi lavori, tra cui l’installazione Le moi fragile (2018), in cui si trovano imprevedibilmente fusi e ricombinati in forma suggestiva uno studio cinematografico e un setting psicoanalitico, per procedere all’indietro, ritrovando via via, sul filo di collegamenti e assonanze, alcuni degli interrogativi che Baruchello ha costantemente formulato nel suo lavoro: che ne è del soggetto, e del soggetto-artista in particolare, del suo spazio di immaginazione e autoinvenzione, nell’epoca della creatività generica, dell’arte di e per la massa? Che posto occupano, che rilevanza hanno, il desiderio, la memoria, l’esperienza individuale nell’eterno presente dei media e del consumo universale?

 

Gianfranco Baruchello, Le Moi fragile, 2018, vista dell'allestimento

 

Le Tre lettere a Raymond Roussel– con cui termina il percorso dell’esposizione e di cui ha parlato anche Tommaso Isabella qui su doppiozero – riassumono in forma sintetica ed eloquente i modi con cui il lavoro dell’artista, nato a Livorno nel 1924, si è misurato con queste domande, protendendosi cioè verso le regioni dell’inconscio e simultaneamente verso il mondo degli oggetti quotidiani e verso la sfera mediale, ovvero quel tessuto connettivo di immagini, parole, comportamenti, che nella società contemporanea danno forma all’esperienza collettiva, ne sono per così dire insieme il basamento e il sintomo. Assemblage, ready-made e montaggio – metodologie moderniste, ormai ampiamente storicizzate, rivolte all’appropriazione diretta del “reale”, o meglio alla creazione di un effetto di reale– definiscono così sin dagli inizi una vicenda creativa che dialoga con le correnti più importanti del proprio tempo, in primo luogo new dada e nouveau réalisme, ma guarda simultaneamente all’indietro, e con occhio fresco e prensile, alla cultura surrealista e alla fondamentale lezione di Marcel Duchamp, individuando una posizione molto personale in cui convivono, come ha scritto Carla Subrizi, movimento dinamico e azione sulle cose, coscienza e reazioni arcaiche, percezione e informazione.

 

Gianfranco Baruchello, vista dell'allestimento, sala dei disegni

 

Un’attitudine testimoniata nella mostra a Rovereto anzitutto dalla serie di oltre duecento disegni datati dalla fine degli anni Cinquanta in avanti, in gran parte mai esposti in precedenza, esposti in grandi teche orizzontali che permettono di coglierne a colpo d'occhio la qualità germinativa e sperimentale. In questo flusso di immagini intime e ininterrotte, un vero e proprio laboratorio in cui, foglio dopo foglio, è possibile scrutare sul nascere le invenzioni di Baruchello, l’affermarsi di una visione fuori dagli schemi, capace di combinare vena umoristica, intelligenza concettuale, con uno sguardo acuto e irriverente sulla realtà circostante, autobiografia poetica ed allusione erotica.

 

Gianfranco Baruchello, La prise de conscience II, 1962; a destra, A little more paranoid, 1962

 

Un assemblage del 1962, La prise de conscience II – presentato nello stesso anno alla storica mostra New Realists alla Sidney Janis Gallery di New York – condensa la visione dell’artista nel momento decisivo del suo ingresso sulla scena internazionale. La “presa di coscienza” del titolo allude alla possibilità di sottrarsi alla saturazione comunicativa – evocata dalla pila di quotidiani irrigiditi dal vinavil posta al centro del lavoro – e di stabilire una diversa relazione, critica, non scettica, col presente, di evadere dalla visione irrigidita, reificata, del tempo e della soggettività divenuta coessenziale alla società di massa. La “coscienza” cui fa riferimento il titolo è dunque anche, in modo ancor più stringente, l’Io cosciente, lo “I” – nel senso del pronome inglese “io” – ridotto a una striscia rossa verticale, letteralmente occupata, riempita dalle copie dei quotidiani, un po’ come i corpi dei decrepiti archeologi di Giorgio de Chirico erano colmati, o invasi, dalle rovine classiche. L’“io”, sembra dire Baruchello, è non solo “un altro” nell’epoca dell’informazione, ma è parlato, agito in permanenza da forze che lo eclissano e lo dissolvono in forme potenti e nuove.

 

In un altro assemblage, A little more paranoid (1962) – una “cornice” tappezzata di ritagli di giornale che contiene alcuni libri ricoperti di pigmento bianco – il doppio riferimento ai combines di Robert Rauschenberg  e gli achromes di Manzoni approfondisce ulteriormente questa dimensione ironica e allegorica: il libro reso illeggibile diventa oggetto che diventa immagine che diventa pensiero, in un concatenamento di calembours visivi. Questo tratto rimarrà sempre caratteristico del lavoro di Baruchello così come di quello del suo coetaneo e ideale compagno di strada Marcel Broodthaers, altro artista essenzialmente solitario che negli stessi anni indaga con spirito pungente e iconoclasta l’ambigua relazione tra linguaggio verbale e sfera visiva, tra stereotipo, invenzione e memoria: e soprattutto, tra il potere dell’istituzione-arte e lo scarto, se mai possibile, prodotto dall’invenzione individuale (di Broodthaers Riccardo Venturi e Serena Carbone hanno scritto su doppiozero rispettivamente qui e qui).

 

Gianfranco Baruchello, Interpretación del preambulo, 1966

 

Più tardi, il formato della scatola-oggetto – coi suoi inevitabili riferimenti a Duchamp e a Joseph Cornell – evolverà nella serie dei preziosi, ineffabili “teatrini”, come ad esempio Autonomia della morte all’angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974 (1974), piccole ribalte in cui Baruchello, fondendo disegno, assemblage, scrittura e bricolage, compone brevi, ellittiche narrazioni sospese tra cronaca e immaginazione, in cui le allusioni al clima politico del tempo si trovano ancora una volta intrecciate a materiali onirici e libere associazioni. 

 

Gianfranco Baruchello, Autonomia della morte all’angolo di via Fiuminata il nove settembre 1974, 1974

 

Il bianco, come non-colore, come campo aperto di possibilità visivo-verbali è la base dell’ampia e più nota produzione di Baruchello, i quadri su cui si accumulano a partire dal 1962 disegni, parole, linee, diagrammi. La ridotta dimensione di segni e glifi – “microimmagini”, le definì un critico al tempo ­– permette la loro dispersione anarchica, non predeterminata sulla superficie, un procedere secondo associazioni libere e impromptus iconici il cui modello più immediato è la pittura segnica di Cy Twombly – in cui griffonages, cancellature, frammenti di scrittura, collage, compongono una sorta di magmatico e luminoso equivalente dell’ininterrotta, inestricabile pulsazione di processi mentali e moti corporei –, raffreddata e come oggettivata in una cifra nuova e personale, in cui si combinano scrittura, disegno tecnico, fumetto, grafica, linguaggi cioè non pittorici e anzi esplicitamente segnati da un’origine mediale, pop, tecnologica, di massa. In altre parole, risolutamente contemporanea.

 

 Gianfranco Baruchello, Nei giardini del dormiveglia, III, 1984

 

Le superfici bianche, mai uniformi, possono così accogliere umori, proiezioni, associazioni inconsce, schegge di quotidianità, dérives dell’immaginazione, fantasmi erotici, visioni grottesche o surreali, sino a comporre una sorta di cosmo senza centro: in un va-e-vieni obbligato, lo spettatore deve avvicinare l’occhio alla superficie per cogliere i dettagli e leggere i testi e allontanarsi per far emergere i percorsi labirintici che li connettono, come accade in mostra ad esempio nel ciclo Nei giardini del dormiveglia (1984). Ma la lettura non è mai conclusiva, ogni tentativo di decifrazione finisce per generare uno scacco e la necessità di reiniziare da capo. La narrazione, come nei più radicali romanzi sperimentali della neoavanguardia, resta, deve restare, indefinitamente aperta.

 

In un testo del 1963, Baruchello evocava «la violenta trasformazione» necessaria all’artista per entrare in «possesso della dimensione grande angolo, l’effetto Palomar della mente, da 0 a 180 gradi, cioè apertura, dilatazione (occhio mano bocca ventre) e dunque grande apertura ex-plosione» (di questo e altri aspetti Andrea Cortellessa ha scritto qui su doppiozero). La possibilità di questa nuova latitudine cognitiva, insieme corporea e mentale, erotica e politica, per la pratica dell’arte, è ciò che rende possibile in ultimo costruire i «piccoli sistemi» cari a Baruchello, forme sempre perfettibili e mai definitive di adattamento al mondo, di ridefinizione costante dell’umano: sottili, indispensabili, sempre attuali, ipotesi di sopravvivenza.

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Il monaco Gaudí

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Il monaco Gaudí vive nel cuore di Barcellona, a Parc Güell. Mi è presto chiaro che ho scelto il periodo peggiore dell’anno per rendergli omaggio. Da quando Barcellona non è più una città, ma una marca, la solcano torme di turisti mezzi nudi, con la musica sparata da casse bluetooth, sudati e famelici di vedere i luoghi-che-devono-essere-visitati. Sembrano perennemente in cerca di luoghi da sbranare e divorare. Quei luoghi puntualmente coincidono con i consigli delle guide turistiche in tutte le lingue del mondo. Li trovi ovunque, torvi e rumorosi, ridanciani e spaesati, in coda per mangiare o per il bagno, o che più semplicemente la fanno qua e là nei giardinetti pubblici. Hai voglia di fare il monaco qui, Gaudí. Per un numero sempre maggiore di città il turismo oggi è la disgrazia in senso assoluto: il cancro che le divora, la fabbrica che le mortifica, l’apocalisse che le impoverisce, come non riuscivano a fare nemmeno le cavallette bibliche con i campi coltivati. Poco importa che l’apocalisse abbia oggi nomi ariosi come appunto Airbnb: i locali non vi trovano tetto sotto cui vivere perché tutto si è ormai bed-and-breakfastizzato (vedi Venezia, summa di questo processo mondiale).

 

 

Ben inteso: si tratta di un’apocalisse normalizzata, alla portata dell’istinto distruttore di ogni piccolo io, come della terribile somma di tanti io. E in più: di un’apocalisse lucrosa all’ombra della quale fioriscono gli stessi commercianti dall’istinto predatore che invocano sempre più turisti e sempre più aeroporti, grandi navi, grandi stazioni.

Qui vengono a vedere anche Gaudí, si capisce. Lui, ignaro del successo che avrebbe colto la sua architettura e la sua città. Le sue fantastiche invenzioni vengono travolte dal flusso violento di un’estetica Disney a tutto spiano. È la disneyzzazione della città, volenti o nolenti, che fa di Gaudí – suo malgrado – un’icona del banale effimero che si può riprodurre su poster, magliette, presine da cucina, mutande colorate… Del resto il rapporto che Gaudí intrattiene con la sua città è un rapporto intimo, quasi incestuoso. Le dà forma, la costella di magnifici punti di riferimento e di svolta. I suoi edifici concedono alla via qualsiasi di vivere l’esaltazione che solo ciò che è unico e irripetibile permette.

 

 

Nel Parc Güell che oggi le torme attraversano tormentose e tormentate, Gaudí ci vive dal 1906 al 1925. Però a quel tempo il grande parco situato sul lato nord-est della città, appena sotto il Monte Carmelo, non è il parco di divertimenti che oggi visitiamo. È invece un immenso fallimento immobiliare: sorto come impresa immobiliare di Eusebi Güell, il progetto prevede originariamente l’ideazione (affidata a Gaudí) e la costruzione di sessanta ville immerse nel verde del parco, con vista sul mare e sulla città, grande più di 15 ettari. 

 

 

Nella casa costruita dal fido Francesc Berenguer, suo braccio destro e singolare figura di architetto senza laurea, come prototipo e show-room per il progettato complesso di ville, sua principale opera urbanistica, Gaudí passa gli ultimi vent’anni della sua vita, prima di trasferirsi nell’oratorio della Sagrada Família, dove morirà un anno dopo, a seguito di un grave incidente stradale (l’architetto viene investito da un tram). Ci vive in maniera frugale, in questo contesto pomposo che ha contribuito a disegnare e in cui nasceranno in effetti solo due ville. Al primo piano troviamo un bagno, il letto quasi monacale, un crocifisso in fronte, all’angolo destro il ritratto del papa; accanto la cappella per le preghiere al primo piano (mentre oggi al pianterreno sono esposti i mobili che Gaudí stesso aveva progettato per due dei suoi capolavori barcellonesi, Casa Calvet e Casa Batló, insieme ai mobili ideati per la cripta della Colònia Güell). In un’altra stanza è esposto quello che chiamava teneramente il suo tesoro: il libro di preghiere, un tessuto ricamato con le sue iniziali, una tazzina del caffè… poche cose che restano e che con la morte del loro proprietario hanno perso per sempre il valore affettivo che ne costituiva l’aura. Ora stanno là in una teca, mestamente, senza che sia più possibile accedere a quel rapporto segreto che costituiva l’unico motivo per possederle.

 

 

È un singolare contrasto con l’effetto bizzarro che i suoi edifici producono. Ci vive lontano dai gorgheggi della Sagrada Família, dove la pietra volteggia nell’accumulo dei tanti effetti disparati. Ma Gaudí era coraggioso, fautore di uno stile non facile e non comodamente riconducibile all’idea diffusa di “bello”. Gaudí dà le vertigini, gli unici a non accorgersene paiono essere i visitatori: in fondo il culto turistico della stravaganza li mette al riparo da tutto, produce il mondo come replica che si possa all’occorrenza acquistare e portare a casa. Familiarizzando il mondo, si finisce per non vedere più i balzi che qualcuno è stato in grado di fargli compiere. Ma come mi dice di Gaudí il ragazzino che mi accompagna in questi giri: lui costringe il futuro a ingrandire il bicchiere per farci stare il troppo di acqua che gli porta in dono. Vuol dire che ne cambia la misura, che alza l’asticella. A furia di incongruenze ha la forza di farci vedere ciò che non avremmo altrimenti mai visto. 

 

 

Questa mi sembra essere l’immagine per eccellenza della cultura. Davanti alla quale si staglia oggi onnipresente benché fondamentalmente impotente lo spettro imperante che fa di Gaudí la sottomarca (l’ennesima) di una marca che si chiama appunto “Barcelona”. Dove è presto evidente che questa ha poco a che fare con la vera città e che la condanna a essere una mera copia della Barcellona che tutti cercano, Gaudí compreso.

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Barcellona
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