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Ceanothus

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Ah, che noia la mania del bianco assoluto! Negli arredi di casa: bianchi i divani, le lampade, i piatti; anche i libri, se mai ce ne fossero, solo con la costola bianca. E nei fiori: sul terrazzo bianchi i lillà, le ortensie e gli agapanto; recisi, nei vasi gli iris, le rose, i tulipani, i gigli sempre in candida livrea. Da quando Vita Sackwille-West, con il marito Sir Harold Nicolson, realizzò nel giardino del Castello di Sissinghurst nel Kent la room del suo White Garden, le essenze color latte sono divenute segno distintivo di eleganza e raffinatezza. E di snobismo floreale. Ma a Sissinghurst molte sono le stanze a tema, e quella bianca trova il suo senso, oltre che nella varietà dei verdi, nel dialogo con le adiacenti dai colori anche accesi, accostati con sapienza. 

 


Insomma, in giardino (come nell’outfit) è uggioso fare della monocromia una divisa. Com’è possibile, tra i tanti colori del maggio, rinunciare agli azzurri del Ceanothus

Arbusto rustico della famiglia delle Rhamnaceae – la stessa, per intenderci, del giuggiolo e del ranno spinello – è originario del Nord America e del Messico dove prospera nella macchia spontanea. Vuole sole e terreno ben drenato, ed è adatto per formare siepi o cespugli compatti. Numerosi gli ibridi in commercio, anche con portamento prostrato, per lo più sempreverdi, o caducifoglia come il rinomato Gloire de Versailles.

 

 

Notevole il Concha dalle piccole foglie lucide e brevi pannocchiette di micro fiori di un blu Cina raro, che ubriaca anche le api; può raggiungere dimensioni importanti, ma non si offenderà se avete l’esigenza di ridimensionarlo con una potatura di contenimento. Se proprio siete fissati, ve ne sono di bianchi, persino di rosati (Marie Simon), ma vi perdereste l’incanto di una lunga esuberante scenografica fioritura che – se giocate con le varietà – dall’oltremare può sfumare fino al cilestro del Ceanothus thyrsiflorus, noto anche come Lillà della California. Per goderveli al meglio, accostateli al rosmarino e alle lavande o, per contrasto, al giallo delle ginestre e delle phlomis, o ai prugna di certe clematidi.

Il suo tallone d’Achille sta nella scarsa longevità e nella non scontata resistenza al gelo: ma gli inglesi, che li amano assai, non si arrendono al rigore delle loro latitudini e in giardino ne fanno una presenza di carattere.  

 

 

Recente e non ancora consolidata è la considerazione che gli accordiamo in Italia, perciò trovare nella nostra letteratura un cenno al Ceanoto è impresa pressoché impossibile. Dobbiamo espatriare, o meglio “dispatriare”, a Reading con Luigi Meneghello, che ci soccorre con un siparietto gustoso proposto nel secondo volume delle Carte. La pagina, datata 10 marzo 1970, è una conferma del motto proverbiale «tutto il mondo è paese». Racconta di un dispetto di confine, questioncelle note a chi possiede un giardino e, con tono divertito, non alieno da intima soddisfazione, annota la morte dei vicini di casa per nulla socievoli, persino molesti: un bel giorno (o una notte) ci tagliò la forsizia, perché qualche ramo sporgeva, si vede, dalla sua parte, nei suoi spazi privati. La tagliò senza dircelo, castronò la fiorita, gentile bellezza dei rami…

Tra il macello di quei rami e la morte di lui cadde la morte quasi segreta della sua sposa. Nessuno l’aveva mai vista. Sapevamo soltanto che c’era. Dall’arrivo del funebre trabiccolo dedussi che doveva essere morta, l’occulta sposa, forse complice dello scempio della forsizia, forse essa stessa notturno boia, strappatasi dal letto nel folto della notte stregante, lei stessa coi forbicioni ai fioriti pennotti della nostra forsizia inferse le forbiciate castronanti… E poi morì, invisibile, e funebre carriola se la porta.

E lui vedovato rifiorì, come in una tarda primavera: più curati i panni, più lieto il viso, più vispa la voce, “mattina mattina”, e da parte mia un accenno quasi amabile di sorriso; ma uno può sorridere e sorridere e non scordare la forsizia!

 

 

Alla di lui morte i Meneghello non videro nemmeno il carro funebre. Erano in gita: «Ah, guarda!». 

Direte voi, e che c’entra la forsizia? Ci entra, ci entra. Meglio dar retta alla moglie Kati che così corregge Luigi:

 

K: «Ma non era una forsizia, era il cyanothus, coi suoi piccoli globi verde-blu, quasi viola. La più bella, la più rara pianta che avevamo in giardino». Io: «Io vedo una forsizia, il giallo fiammante…». K: «Cyanothus… l’avevamo ereditato quando ci vendettero la casa». Io: «Vero che tendeva a morire di freddo d’inverno?».

 

Ci deve pur essere stata una forsizia nel giardino inglese dei Meneghello, e forse pure di fianco al Ceanothus, nel più canonico abbinamento del giallo con il blu. Ma, se si vuole creare una tavolozza di contrasti, non vanno dimenticati i tempi delle fioriture: quando arriva il maggio, l’oro della forsizia è già svanito, andato, e senza bisogno di «funebre carriola». 

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Blu in giardino
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Lettera da Londra

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London calling cantavano, nel cuore del punk, i Clash. Londra perde rapidamente il suo statuto di capitale dell’impero economico d’occidente, mentre le grandi finanziarie, temendo il boomerang di Brexit, stanno cominciando a far fagotto, e a scegliere altre ambientazioni per la loro recita. I barboni dormono per strada su materassi improvvisati vicino alle stazioni della metro. Su un marciapiede sconnesso che porta al Barbican Centre, sorride il volto inquieto del bel Travis Alabanza, che interpreta Jordan nella recente versione, dal cast decisamente queer, di Jubilee, in cui Chris Goode rivisita il capolavoro furente di Derek Jarman, a quarantuno anni dalla sua uscita. 

 

Proprio al centro polivalente va in scena una mostra notevolissima Another kind of life. Photography of the Margins. Quattordici fotografi e artisti seguono persone o gruppi che non si conformano, che sfuggono all’imposizione delle regole sociali, che scappano verso la mèta di una impossibile felicità, o dedicano tutte le loro energie a una rappresentazione di sé come un altro. Spiccano gli scatti crudeli in bianco e nero di Walter Pfeiffer che scavano il corpo in mutazione di Carlo Joh, che si assottiglia fino a diventare una vivente linea di Egon Schiele. Igor Palmin scatta memorabili immagini di hippies russi, in fuga verso la Siberia, dove poter vivere in precari carrozzoni il sogno di evasione che nelle città la polizia reprimeva con la massima violenza. Meravigliosa è la presenza di Evelyn, regina travestita di Santiago del Cile, che sembra uscita dalle pagine di Ho paura torero di Pablo Lemebel (uscito in italiano da Marcos y Marcos), celebrata dall’obiettivo di Paz Erazzuriz, acuta nel rappresentare le vicende di una metropoli sotto la dittatura e dopo.

 

 

Boris Mikhailov allestisce crudeli, eppure anche teneri, matrimoni di baroni e homeless in Ucraina; Dayanita Singh, da poco celebrata da una retrospettiva alla Hayward, indaga l’esistenza di un eunuco della comunità degli Hijira, Mona Ahmed, con cui ha avuto lunga consuetudine, mentre Teresa Margolles, celebrata ora a Milano nella bella mostra Ya basta hijos de puta, ossessivamente torna agli spazi orrorifici di Ciudad Juarez, presentando una serie di prostitute transessuali, che danzano, finalmente senza paura, nelle dance hall abbandonate, dopo un ennesimo tentativo di rigenerazione operato dal governo, nella bella serie La pista del baile. Terrorizzanti, nella loro inquietudine, sono anche le icone di persone che sfuggono dall’autorità negli Stati Uniti, rifugiandosi nel cuore delle foreste, in comunità minime, nel sospetto di ogni forma di potere costituito. Nel vicino cinema i poster annunciano a inizio giugno un notevole programma dedicato a Artists and Activists, una retrospettiva del cinema delle femministe americane più radicali, tra anni ’70 e ’80, con film come il breve e magnifico cartoon Desire pie di Lisa Crafts o Hair piece di Ayoka Chenzira. 

 

National Gallery, National Portrait Gallery e Royal Academy, per la prima volta insieme celebrano la visione di acuta di Tacita Dean, che declina nella sua immagine filmica una analisi delle forme dell’arte, allestendo tableaux sulla natura morta, con lavori che non si assocerebbero per solito all’argomento, oppure mette in scena nella forma di miniature elisabettiana una serie di mini-Amleti (memorabile la presenza, nella forma di un santino digitale, di David Warner, che compare anche in un altro lavoro). L’artista dichiara la sua tradizione, mettendo in scena le sue opere a fianco di quadri di Paul Nash, e indagando a lungo la figura di Cy Twombly. 

 

Al Victoria & Albert due mostre trattano memorabilmente di crudeltà e eleganza: Fashioned from Nature indaga su quanto la moda abbia incrudelito su balene, coleotteri, farfalle, uccelli del paradiso, pappagalli per avere elementi di fasto e fascino, arrivando fino ai tentativi di creazione sostenibile di oggi, con uno sguardo a trecentosessanta gradi. Ocean Liners, dal magnifico allestimento, indaga il mondo dei transatlantici, con cui poveri e ricchi si spostavano nel mondo, prima dell’avvento dell’aereo. Trionfale la presenza dell’Art Deco, ma anche pressante la presenza di tutti i domestici che servivano per sostenere lo splendore di questa città galleggiante, in cui le classi erano rigidamente divise dal biglietto, e i poveri di terza classe si accalcavano a vedere la grande descente, quando i beautiful ones scendevano indossando le migliori toilettes di Parigi. A bordo non mancava nemmeno il sacro, tra una strepitosa Madonna dell’Atlantico e un’arca ebraica, che spiega, meglio di mille discorsi, il momento in cui gli ebrei hanno cominciato a lasciare l’Europa negli anni ’30. I transatlantici non erano certo indenni dalla storia, ovviamente: Hitler e Mussolini adoravano comparire a bordo per dimostrare la loro supremazia, molte navi in tempo di guerra vennero riconvertite per il trasporto dei soldati. 

Fuori dal V & A l’Esercito della Salvezza canta e raccoglie elemosine per i poveri: manca solo l’arrivo di Mary Poppins perché la rappresentazione sia perfetta.

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Mostre, personaggi, fotografie dai margini
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Gesti

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Il termine latino gestus ha un doppio significato. Da un lato, indica i movimenti di tutto il corpo e dall’altro, solo quelli delle mani. Nel corso del medioevo i gesti erano tenuti in grande sospetto, in particolare nel mondo monastico. Gli eretici erano identificati dal fatto che gesticolavano in modo eccessivo, ma già i predicatori francescani studiavano la mimica per rendere più efficace la loro predicazione. Che cos’è dunque un gesto?, si chiede una giovane studiosa Emanuela Campisi (Che cos’è la gestualità, Carocci, pp. 124, € 12). L’argomento ha una sua attualità se, sulla scia di un libretto di Bruno Munari del 1958, Supplemento al dizionario d’italiano (Corraini), continuamente ristampato, Lilia Angela Cavallo, architetto e fotografa, ha realizzato Il dizionario dei gesti (Iacobelli editore, pp. 509, € 18) composto di 243 gesti censiti nel corso degli anni fotografando amici e conoscenti.

 

Noi italiani, come si sa, non solo gesticoliamo molto, e per questo siamo oggetto da molti anni di studi di semiologi e linguisti di tutto il mondo, ma vantiamo anche un libro anticipatore redatto da Andrea de Jorio nel 1832, studioso napoletano (ripubblicato da Forni nel 2002), La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano. Archeologo e canonico, de Jorio aveva mostrato come i gesti dei partenopei discendessero direttamente da quelli degli antichi greci che aveva studiato sui vasi e nei reperti. La domanda che si sono posti gli studiosi è: i gesti sono innati o invece appresi? Nel 1941 un allievo dell’antropologo Franz Boas, David Efron aveva risposto alle ideologie razziste dei nazisti, per cui il comportamento è derivato da un’eredità biologica, mostrando come il modo tipico di gesticolare di ebrei e italiani appena arrivati in America scompare man mano che gli individui sono assimilati nella nuova comunità. Il suo Gesto, razza, cultura, la cui traduzione italiana nel 1974 era stata voluta da Umberto Eco, mostrava come i gesti dipendano non solo dalla cultura da cui si proviene, ma anche da quella in cui si vive. Ma i gesti sono un linguaggio a sé, o invece dipendono e interagiscono con il parlato?

 

Ph Duane Michals.


Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo Adam Kendon, grande studioso di gestualità, autore di saggi come Gesture: Visible Action as Utterance (Cambridge University Press, 2004) ha approfondito la questione studiando la lingua dei segni degli aborigeni australiani come i gesti delle mani dei napoletani. È stato lui a sviluppare quella che si chiama l’analisi cinetica del gesto e a creare la terminologia sulla gestualità oggi in uso. Come spiega Campisi, ci sono gesti delle mani e delle braccia totalmente dipendenti dal parlato; ad esempio, il movimento verso il basso che indica lo scendere le scale; poi ci sono gesti che si integrano nel parlato e aggiungono qualcosa a quello che si sta dicendo: una frase che termina con un gesto non compreso nella espressione verbale; poi c’è la pantomima, dove i gesti mimano azioni o oggetti senza usare il parlato; e infine gli “emblemi”, detti Italianate gestures: sostituiscono il parlato e sono altamente convenzionali, come OK o il gesto della mano a borsa o a grappolo, ritenuto il gesto italiano più famoso del mondo, che si trova sulla copertina del libro di Munari e indica dubbio o domanda. Oltre a questi ci sono le lingue dei gesti, come quelle usate dalle comunità dei sordi, dai monaci, dagli indiani d’America e dalle donne aborigene australiane, che usano i gesti quando è loro vietato parlare. Sono questi i gesti che attirarono l’attenzione di de Jorio e anche di Desmond Morris in un libro oggi introvabile, Gesti (Mondadori).

 

Gli emblemi che dicono di sì o di no senza ricorrere al parlato sembrano abbastanza simili in molte culture. Tuttavia è assai difficile, come mostra la rassegna di Campisi, distinguere nettamente tra gesti con il parlato e gesti senza parlato. La leggenda narra che in un viaggio in treno Pietro Sraffa, geniale economista italiano riparato a Cambridge per salvarsi dai fascisti, chiese a Wittgenstein, autore del Tractatus, che di genialità ne aveva altrettanta, a che logica rispondesse il gesto napoletano in cui l’indice e il medio sono strofinati sotto il mento. Da qui nacque la teoria dei “giochi linguistici” delle Ricerche filosofiche: il significato del gesto deriva dall’insieme dei suoi usi, dipende dal contesto e dalle intenzioni del parlante. Una serie di altri gesti sono detti deittici, quelli con cui si mostra qualcosa: indicare con un dito un oggetto, una posizione, una direzione. Sembrano gesti semplici, e invece sono molto complessi da descrivere. Si tratta dei gesti che tutti noi abbiamo usato da bambini: mano aperta, pollice, dito medio, testa, labbra o con lo sguardo.

 

Nel libro di Lilia Angela Cavallo ci sono moltissimi gesti accompagnati dalle espressioni del viso: occhi, fronte, labbra, guance. Sono gesti che vengono condivisi in una cultura e non accettati in un’altra; nelle culture aborigene australiane, e in alcune africane, il mezzo più usato per indicare sono le labbra e non l’indice. Insomma, il gesto non è così semplice come appare. Per quanto sia una delle prime forme di comunicazione, il modo con cui si sviluppa la gesticolazione negli esseri umani è piuttosto complessa, dal momento che cercano di rappresentare con un’immagine ciò a cui si riferiscono. Come sono nati i gesti? Michael C. Corballis in un suo libro, Dalla mano alla bocca (Cortina), argomenta che ci derivano dalle scimmie antropomorfe, nostre progenitrici. Il linguaggio vocale viene dai gesti possibili con le mani anche in assenza del pollice opponibile. A favorirli sarebbe stata la necessità di essere silenziosi nella caccia, in cui i gesti deittici sono più efficaci. Perché allora è sorto il linguaggio vocale? Per la complessità imposta della vita di gruppo: comunicare nel buio, dover comunicare mentre le mani erano occupate, esprimere sentimenti ed emozioni. Corballis è stato criticato, ma il suo libro è senza dubbio affascinante. I gesti e il loro studio hanno infatti a che fare con qualcosa d’ancestrale e d’arcaico che c’è in noi, qualcosa che l’evoluzione non ha cancellato, anzi ha provveduto a mantenere. Delegheremo anche questo alle macchine nel prossimo futuro?

 

Questo articolo è comparso in forma più breve su “La Repubblica” che ringraziamo.

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Meteoriti, il cielo sulla terra

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Una meteorite è tante cose. Una pietra che cade sulla terra? Certamente, ma è dir poco e male. Una meteorite è una pietra che porta il cielo sulla terra, il cosmo a portata di mano. Una pietra che fomenta il desiderio tutto umano di popolare il cielo e attiva un immaginario a cavallo tra scienza e mitologia. Provenendo da uno spazio inaccessibile all’occhio umano, è di fatto un messaggero dell’altrove. Di cosa le meteoriti siano il messaggio tuttavia non è chiaro, e i tentativi di rispondere coprono la storia del pensiero umano.

Le meteoriti portano sulla Terra che abitiamo un altrove spaziale ma anche temporale, in quanto vestigia di un passato più profondo della nostra esistenza, offrendosi allo sguardo e al tatto come concrezione di ciò che sfugge alla nostra comprensione. Poco evolute dai tempi della formazione del sistema solare, provenienti in gran parte dalla cintura di asteroidi tra Marte e Giove, le meteoriti ci mostrano com’era il mondo prima della comparsa dell’uomo. È sotto forma pietrosa che la nostra storia più antica è raccontata. Compaiono già nel primo testo letterario di cui ci rimane traccia, l’epopea di Gilgamesh (2600-2500 a.C.).

 

 

Questo altrove spazio-temporale di cui sono portatrici, tuttavia, non è situato in cieli remoti ma, con un ribaltamento di cui non siamo sempre coscienti, al cuore della Terra, in quel nucleo metallico inaccessibile che giunge a noi sotto forma di pietre piovute dal cielo. Le meteoriti sono archeologia pura, ma un’archeologia che, anziché trovarsi sottoterra, stratificata come una torta nuziale sotto la crosta terrestre, vaga nel cielo al di là delle nuvole.

Le meteoriti sono gli unici extraterrestri che ci rendono regolarmente visita –   che l’uomo meriti tanta affezione?

 

 

L’idea di una pietra che vola, di una pietra alata come un paffuto cherubino, sconvolge il luogo comune che ne fa materia inerte sopra cui camminiamo, qualcosa che si calpesta – l’icona della gravità. È il destino delle pietre: seppellite sotto i nostri piedi oppure orbitanti in spazi eterei inaccessibili, in entrambi i casi invisibili.

Ma se le meteoriti fluttuano nell’aria, ci rendono visita non così di rado: ogni anno cadono sulla terra cinquemila meteoriti di oltre un chilo. Ogni anno cadono sulla terra cinque tonnellate di meteoriti tra cento grammi e cento chili, senza contare le oltre cinquemila tonnellate di micro-meteoriti. Siamo bombardati da meteoriti ma le ignoriamo, sensibili solo alle previsioni meteorologiche che al cielo si limitano a chiedere se pioverà o farà bello.

 

Secondo gli Aztechi, le meteoriti erano un escremento divino, così come le stelle filanti erano urina divina. Le loro divinità prendevano lo spazio celeste per un’immensa latrina, e tra un fulmine e un raggio di sole, tra una nuvola e un arcobaleno, cagavano e pisciavano ad libitum nell’empireo. Ebbe inizio così l’inquinamento atmosferico?

 

 

Facciamo chiarezza: a) la meteoroide è un corpo extraterrestre nello spazio; b) la meteora una traccia luminosa che si genera nel cielo quando la meteoroide entra nell’atmosfera terrestre, insomma una stella cadente; c) la meteorite è una meteoroide che termina la sua corsa sulla terra, una tappa non affatto evidente.

 

Le meteoriti sono viaggiatrici instancabili. Ma sono anche precipitose, spericolate e con tendenze suicide. In seguito a una collisione tra asteroidi, dei frammenti cominciano a vagare nello spazio per decine di milioni di anni, per non parlare di Deep Spring, che ha migrato in solitudine per 2,3 miliardi di anni. Una calma apparente: hanno così fretta di raggiungere la terra che si precipitano attraverso l’atmosfera celeste – sparate a 70.000 km/h e bollenti (1500 gradi centigradi) – e, complice il calore e la resistenza aerodinamica, cominciano letteralmente a perdere pezzi. Il più delle volte si polverizzano, perdendo oltre il 90% della loro massa, eccezionalmente solo il 25%. Alcune si annientano strada facendo, altre sono consumate dal sole, ma le più tenaci proseguono la loro corsa, destinazione Terra. 

Una ragione ulteriore per accogliere con premura la massa che arriva fino a noi senza trasformarsi in poltiglia meteoritica.

 

 

Il 7 novembre 1492 verso mezzogiorno un’esplosione squarcia il cielo di Basilea. Che sarà mai? È la prima meteorite caduta sulla Terra – per la precisione nel paesino di Ensisheim – di cui si ha testimonianza certa nel mondo occidentale. Testimone d’eccezione di questi 127 chili di pietra compatta è l’artista Albrecht Dürer. Se ne ricorderà quattro anni dopo dipingendo San Girolamo penitente (1496, conservato alla National Gallery di Londra). Sul retro della tela dipinge l’esplosione di un oggetto celeste, dal cuore giallo e dai raggi rossi, incandescenti come lava sputata dalla bocca di un vulcano. Se ne ricorderà in altre occasioni, come nella celebre Melencolia I, la cui iconologia va ripresa daccapo a partire dall’evento meteoritico.

 

Riguardo all’odorato, le meteoriti hanno la loro fragranza, un misto di polvere da sparo e, più prosaicamente, uovo marcio. Durante la loro traversata i minerali contenenti zolfo si vaporizzano e si forma acido solfidrico o anidride solforosa.

 

 

Malgrado la recente pubblicità di una merendina, con una famiglia intera sterminata dalla caduta di meteoriti, da un punto di vista statistico niente è meno attendibile: “Ci sono più possibilità di essere colpiti da un tornado, un fulmine e un uragano allo stesso tempo” secondo l’astronomo Michael Reynolds. Ma la sfiga, si sa, è cieca, come pensò Ann Elizabeth Hodges. Il 30 novembre 1954 faceva la siesta stravaccata sul divano di casa sua con un piumino, a Sylacauga (Alabama). Poco prima delle sette di sera, una meteorite di quattro chili sfondò il tetto di casa e le piombò addosso causando un grosso livido sulla coscia sinistra grosso come un’ananas. Battezzata meteorite di Hodges, l’ignara signora non tardò a rivendicarne la proprietà: “Sento che la meteorite mi appartenga. Lo so che Dio me l’ha predestinata. Dopotutto, ha colpito me!”. Fiutando l’affare come se si trattasse di una gigante pepita d’oro, anche la proprietaria di casa rivendicò per sé la meteorite. Seguì una causa legale al termine della quale fu donata al locale museo di storia naturale dove si trova tuttora. Quanto alla signora Hodges, non si riprese mai dall’infortunio; separatasi dal marito, afflitta da un esaurimento nervoso, morì d’infarto e d’insufficienza renale a soli 52 anni.

 

Come suole affermare chi, colpito da una disgrazia, cerca consolazione, poteva andare molto peggio. Si racconta che, nel 1677, un frate francescano di Milano fu colpito da una meteorite a Santa Maria della Pace e ci rimase secco. Il corpus delicti era conservato nella Wunderkammer di Manfredo Settala, oggi dispersa, tra sfere armillari e vasetti lacrimatori, braccia di mummie e teste d’ippopotamo. Per non parlare del papa colpito da una meteorite in un’iconica scultura di Maurizio Cattelan (La nona ora, 1999).

 

 

9 ottobre 1992, sono quasi le otto di sera quando una meteorite colpisce una Chevrolet Malibu rossa parcheggiata a Peekskill, a nord di New York. Manca di pochi centimetri il serbatoio ma sfonda il bagagliaio da una parte all’altra. La proprietaria della macchina chiama la polizia, che sulle prime pensa a un atto vandalico. Il buco nella carrozzeria è un valore aggiunto: acquistata a 300 $ e rivenduta a 10.000 $, la macchina è oggi esposta dappertutto, inclusa la mostra Météorites, entre ciel et terre al Musée national d’histoire naturelle di Parigi dove l’ho ammirata, chiusa in una teca di vetro come un mammifero estinto.

Anziché considerarle come doni dal cielo, le meteoriti sono diventate beni di consumo in mano al mercato e alle case d’asta, che hanno fiutato l’affare. Lo dimostra bene la recente Deep Impact: Martian, Lunar and Other Rare Meteorites (Christie’s, febbraio 2018), con prezzi per tutte le tasche, da poco più di 1000 $ a oltre 80.000 $. Per renderle più appetibili, sono presentate come “nature’s ready-made sculptures”, simili a opere di Henry Moore, Arnaldo Pomodoro, Barbara Hepworth.

 

Conservate come amuleti, trasportate nelle chiese, usate come incudini, frecce e daghe – come quella in ferro meteoritico ritrovata nella tomba di Tutankhamon – assurte a monumenti nazionali, come Hoba caduta nel 1920 in Namibia e che, con le sue 60 tonnellate è la più grande del mondo e, in quanto tale, inamovibile: le meteoriti spaziano con disinvoltura dalla scienza alla magia, passando per il culto. Penso alla pietra nera di Emesa, trasportata dalla Siria a Roma nel 219 dall’imperatore Eliogabalo e conservata in un tempio sul Palatino, in quanto si credeva che dimorasse al suo interno una divinità (secondo il termine tecnico, si trattava di un betilo).

Quante volte si è sperato di trovare tracce di vita fossile in una meteorite. Così propone la teoria della panspermia, che vede la Terra inseminata da semi di vita provenienti da un altro pianeta, trasportati ad esempio all’interno delle meteoriti (è il caso della litopanspermia).

 

 

Stufe dell’attenzione morbosa dei geologi, le meteoriti s’immischiano a volte alle faccende politiche. La mattina del 15 febbraio 2013 diecimila tonnellate di pietra stellare di una quindicina di metri di diametro si abbattono su Čeljabinsk, in Russia. Corrono a 44 volte la velocità del suono. L’onda d’urto è così violenta che i vetri delle finestre vanno in frantumi e le schegge feriscono, come proiettili, un migliaio di abitanti. Bazzecole rispetto a quella di Toungouska (Siberia) del 30 giugno 1908, un bolide di 50m di diametro che liberò un’energia pari a 300 bombe di Hiroshima o giù di lì. Le uniche vittime furono un numero imprecisato di renne, ma se l’impatto si fosse prodotto cinque ore dopo, San Pietroburgo sarebbe stata rasa al suolo.

Riguardo a Čeljabinsk, un politico nazionalista russo non ebbe dubbi e il giorno dopo affermò pubblicamente che, in questa faccenda, le meteoriti non c’entrano niente, e che si trattava in realtà del test di una nuova arma di distruzione di massa da parte degli americani.

 

Alle meteoriti manca il dono della discrezione, su questo non ci piove. Cadendo creano dei crateri immensi come il Chicxulub, tra il Messico e lo Yucatan (diametro di 180 km circa), il Vredefort in Africa del Sud (diametro di 250 km) o il Sudbury in Canada (diametro di 300 km). Se il primo sembra piccolo rispetto agli altri, causò un’ecatombe ecologica e l’estinzione di circa il 40% della fauna terrestre che popolava la Terra. Ora, inutile allarmarsi pensando ad Armaggedon,  in quanto Chicxulub cadde 65 milioni di anni fa.

Per rincuorarci, non dimentichiamo le piccole meteoriti che cadono senza che nessuno se ne accorga, trovate molto tempo dopo, e che i francesi chiamano “trouvailles”. Tra i luoghi preferiti dai cacciatori di meteoriti – per i quali trovare una meteorite è un atto poetico – c’è l’Antartico, con le sue proprietà chimiche non modificate dall’atmosfera e, agli antipodi, il deserto di Atacama in Cile, il più arido del mondo.

 

 

Le meteoriti producono un suono tutto loro. Eileen M. Brown aveva l’hobby di uscire nel giardino di casa sua, a Bovedy, nel nord dell’Irlanda, munita di un registratore per catturare il canto degli uccelli. Fino a quel 25 aprile 1969 in cui il cinguettio fu coperto da un boato che sembrava una cannonata, o era un tuono? Strano però, il cielo è terso. Senza saperlo la signora Brown aveva prodotto la prima terrificante registrazione sonora di una meteorite in caduta.

 

13 settembre 1768, primo pomeriggio. La versione dei contadini di Grand Lucé (Sarthe) è unanime: quella pietra calda e infuocata dalla forma triangolare, composta di ferro e zolfo, che non somiglia alle rocce locali, è caduta dal cielo durante un temporale. Chi ha visto una nuvola seguita da un tuono secco e forte, chi ha sentito un sibilo nell’aria simile al muggito di un bue, prima di vedere un corpo opaco dirigersi verso la terra. A proposito, non ci sono vulcani nelle vicinanze.

L’Académie des sciences, per cui questa tiritera delle pietre che cadono dal cielo è una credenza popolare, chiede una perizia scientifica a Lavoisier. In linea col pensiero scientifico del XVIII secolo, l’illustre scienziato afferma che si tratta di un frammento di roccia terrestre colpita da un fulmine, fusa in superficie come sulle cime elevate e isolate del Monte Bianco o del Pic du Midi di Bigorre.

Le pietre, per diamine, non cadono dal cielo e tutti quei contadini, sottintende Lavoisier, nobile di nascita, hanno preso una cantonata. Ma è mai possibile che così tanti testimoni si siano sbagliati? Possibile che il parere di una persona che non ha assistito all’evento valga più di quella di così tanti testimoni oculari? Sì, è possibile.

I contadini ci avevano visto bene, come la scienza realizzò nel 1794, ventisei anni dopo, lo stesso anno in cui Lavoisier venne ghigliottinato a 51 anni, lo stesso anno in cui cadde una meteorite a Siena che fu considerata come proveniente dal lontano Vesuvio. Il fisico tedesco Ernst Chladni confermò l’origine extraterrestre o cosmica delle meteoriti, analizzando la “massa di ferro” di 700 kg che il naturalista Pierre Simon de Pallas (non è un nome eccezionale?) recuperò vicino Krasnoïarsk nel 1749 (la parte più consistente è conservata oggi a Mosca). Del resto già Plutarco e Diogene d’Apollonia avevano suggerito quest’ipotesi, ma a volte l’evidenza è troppo impudente per essere accettata.

 

 

Usate per curare l’infertilità o portatrici della minaccia più apocalittica che si possa immaginare – l’annientamento del genere umano –, le meteoriti non hanno finito di sorprenderci. Perché la caduta delle meteoriti è stata predetta una sola volta nel corso della storia, quando fu intercettata dal Catalina Sky Survey il 6 ottobre 2008. Osservata in diretta, l’impatto è avvenuto con uno scarto di sei secondi e meno di un chilometro.

Da cui il mio ultimo consiglio spassionato: non date appuntamento a una meteorite. È quasi matematico che vi darà buca. Le meteoriti sono fatte così, amano fare un’improvvisata, del tipo “passavo per caso da queste parti…”

 

C’è tempo fino al 10 giugno per visitare la mostra Météorites, entre ciel et terre al Musée national d’histoire naturelle di Parigi, a cui queste osservazioni si ispirano. Si veda anche Matthieu Gounelle, Météorites. A la recherche de nos origines, Flammarion. 2013, 2017. Tutte le illustrazioni provengono da Kometenbuch, Il Libro della cometa, 1587.

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I bambini e la noia

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Niente come la noia è contagioso: la noia spande la sua patina grigia ovunque si posi. Così, invitata a discorrere su noia e bambini, come prima reazione mi sono un po’ preoccupata. E per due ragioni: non solo la noia è contagiosa, ma ultimamente, in ambito pedagogico, sempre più spesso si sente affermare l’importanza della noia, la sua riscoperta, la necessità di riconsegnare i bambini alla sua esperienza, passaggio necessario alla scoperta dell’avventura. Ma quando si comincia a sentire ripetere qualcosa troppo spesso, il rischio della noia è dietro l’angolo. 

 

La noia quale terreno fertile per l’immaginazione è testimoniata in molta letteratura per ragazzi, basti per tutti l’esempio di Alice in Wonderland, le cui mirabolanti avventure hanno inizio con lo spalancarsi di una voragine di noia che sconfina nel torpore e quindi nel sogno:

«Alice cominciava a essere veramente stufa di star seduta senza far nulla accanto alla

sorella, sulla riva del fiume. Una o due volte aveva provato a dare un'occhiata al libro che

sua sorella stava leggendo, ma non c'erano né figure né filastrocche. "Che me ne faccio d'un

libro senza figure e senza filastrocche?" pensava Alice.

A dire il vero non era possibile pensare molto, perché faceva così caldo che Alice si sentiva

tutta assonnata e con le idee confuse: adesso si stava chiedendo se valesse la pena di alzarsi a raccogliere fiori per fare una ghirlanda di margherite, quando ecco che improvvisamente le passò proprio davanti un Coniglio Bianco con gli occhi rosa. La cosa non sembrò troppo strana, ad Alice. Non le parve neppure troppo strano che il Coniglio dicesse tra sé: "Povero me, povero me! Arriverò troppo tardi!" Solo in un secondo tempo, quando ripensò a questo fatto, Alice si

rese conto che avrebbe dovuto meravigliarsene; sull'istante le sembrò addirittura una cosa

naturale.»

 

Stephanie Bracciano, Down the Rabbit Hole.


Tim Burton, Alice in Wonderland, 2010.


Ma la noia è subdola, così, benché sia comprensibile, in tempi di iper organizzazione del tempo, esortare i bambini a riappropriarsi della ‘benedetta’ noia, consegnare un concetto, per quanto buono, a una sistematica ripetizione, significa offrirlo alla diabolica facoltà della noia di disinnescarlo, renderlo inutilizzabile, in sostanza di cancellarlo. 

Repetita iuvant sed stufant, recita un motto latino. Oggi i mezzi di comunicazione di cui siamo dotati, insieme alla possibilità di usarli individualmente, rendono consistente il pericolo di bruciare ogni messaggio in tempi brevi: più che un pericolo una certezza. Bisognerebbe pensarci bene, pertanto, prima di fare entrare un’idea, un’esperienza, un pensiero, nel meccanismo bulimico della comunicazione collettiva che come approccio alla conoscenza del mondo ha una rapida, rapace e vorace appropriazione, seguita da un altrettanto rapido, rapace e vorace consumo. Le idee, non tutte, ma quelle migliori e più degne di vita, infatti, sono delicate, vivono in habitat calibrati e complessi. Tolte dai loro contesti vitali, in questo processo di iper scrittura, durano poco, si riducono a ombre, deperiscono, e finiscono in niente, scomparendo senza lasciare di sé, paradossalmente, traccia o memoria.

 

Se nelle fiabe l’avvio di ogni avventura è un’infrazione a una regola, la rottura di una prescrizione che trova la sua conferma nell’ordine inalterabile delle cose, naturale e divino, nella letteratura moderna per ragazzi è invece la noia il più delle volte a essere il motore della storia, spingendo i protagonisti oltre l’orizzonte quotidiano, superando l’appartenenza alla propria classe sociale e alla propria cultura familiare. La noia, infatti, eccezion fatta per qualche principessa precipitata nella tristezza, è sconosciuta nel mondo arcaico e contadino delle fiabe popolari, sostanzialmente teso ad assicurarsi la sopravvivenza.

 

Fra fiaba e romanzo moderno ciò che è accaduto è la nascita della società industriale, l’avvento della classe borghese, con tutto ciò che durante questo passaggio si è verificato: riorganizzazione del lavoro, della famiglia, della società, del costume.

Dunque, se nella fiaba è l’ordine della vita stessa e delle sue inamovibili gerarchie che si sovverte contravvenendo a regole, princìpi e promesse, nel racconto e nel romanzo moderno sono il tempo fortemente organizzato della scuola e della famiglia, e il comportamento rigidamente regolamentato prescritto dalla società, l’oggetto della rivoluzione. E lo sono proprio a partire dall’esperienza della noia, figlia di quella grande novità che è stata la nascita del tempo libero. 

Pinocchio è un impaziente nato che ai gesti lenti del padre preferisce la corsa sfrenata sulle proprie gambette di legno; Tom Sawyer e Huckleberry Finn architettano ogni sorta di nefandezze e disastri pur di contravvenire alle ammorbanti regole del proprio ambiente; la piccola Sophie è vessata dalla saggezza di una madre educatrice tanto buona quanto impietosa; Winnie Foster scappa di casa e si avventura nel bosco per cercarsi un nuovo nome, perché quello che ha è tutto “consumato da tanto che lo chiamano”; Edward, Harold, Selina, Charlotte e Kenneth dall’alto della loro avventurosa vita quotidiana osservano increduli e schifati le assurde attività degli adulti che chiamano gli Olimpii: «torpidi e sbiaditi, e incapaci di interessi vitali e di occupazioni intelligenti: emergevano dalle nuvole, poi svanivano di nuovo per trascinare la loro inutile esistenza in qualche luogo a noi sconosciuto»; Matilde legge per sfuggire alla mediocrità mortifera dei propri genitori middle class; Pel di Carota, Giannino Stoppani e Pippi Calzelunghe preferiscono la morte alla noia, dimensione totalmente estranea entro la quale la loro intelligenza non concepisce di abitare. 

È quando l’infanzia viene scoperta e acquisisce un peso, anche letterario, come spiega Martino Negri nel suo ultimo saggio Pierino Porcospino. Prima icona della letteratura per l’infanzia, che nascono le figure quasi magiche dei ragazzi selvaggi, deputati a scardinare le norme del vivere borghese, proiezioni adulte di quella facoltà arcana e sacra attribuita all’infanzia di ristabilire il contatto con la natura e le fonti più segrete e profonde dell’essere, di cui il più famoso esponente è Mowgli, protagonista de Il libro della giungla di Rudyard Kipling.

In tutte queste storie si direbbe essere la stessa forma biologica del bambino aliena alla noia, la sua stessa fisiologia, un’incapacità radicale dettata dalla forza dell’istinto vitale di un organismo in crescita. È la pulsione allo sviluppo, il suo movimento costante che determina un’opposizione spontanea alla staticità, agli spazi e ai tempi chiusi degli adulti. 

 

 

Giambattista Galizzi, illustrazione (1942) per Pinocchio. Storia di un burattino.

 

Norman Rockwell, Tom Sawyer Modern Day, immagine pubblicitaria per la Coca Cola, 1935.


Ma cos’è esattamente la noia? Verrebbe da dire una reazione dell’essere umano a un contesto, a un ambiente così estranei alle proprie necessità e alla propria natura, così inaccessibile alla propria possibilità di comprensione da risultare estraneo, impermeabile all’attenzione e alla curiosità. La noia appare un congelamento del cuore e della mente, a tal punto frustrati da risultare devitalizzati. Una sorta di chiusura temporanea, una depressione lampo che, indotta dall’esterno, spinge la mente a secernere sulla realtà circostante la patina grigia e spenta della disattenzione, della tristezza, dell’apatia, dell’indifferenza. La noia quindi è un meccanismo di allontanamento, una presa di distanza da qualcosa verso cui si avverte una non appartenenza. Una separazione che spinge il soggetto a isolarsi e a chiudersi, ma al contempo a rientrare in sé, in ascolto e in cerca di una via di fuga. Da questo punto di vista si potrebbe anche dire che la noia è un potente attivatore di identità poiché ha fra le proprie conseguenze il definirsi di un soggetto in opposizione a una presenza o situazione estranea. 

I bambini, infatti, nella moderna letteratura per ragazzi si definiscono, sempre, in opposizione agli adulti e al loro mondo, e la distanza che li separa è segnalata quasi sempre dalla presenza opprimente della noia. I regni dell’infanzia, la loro separazione da quella che è la slabbrata e desolata terra della vita adulta, nascono col mondo borghese, cantati da decine di scrittori – Saint-Exupéry, Kenneth Grahame, Edith Nesbit, C. S. Lewis, Natalie Babbit, Astrid Lindgren, per fare solo alcuni dei nomi di coloro che costruirono l’epica dell’infanzia come età dell’oro.

Dunque, se così stanno le cose, verrebbe da chiedersi quando gli adulti abbiano cominciato a considerare la noia, conseguenza del loro modo di vivere e di pensare, un fattore positivo per lo sviluppo dei bambini, ingrediente essenziale della crescita, catalizzatore di qualità indispensabili, quali la creatività, l’immaginazione, l’autonomia. L’altissima qualità annoiante degli adulti dovrebbe, infatti, essere sufficiente a garantire ai bambini una sana, ineliminabile e costante dose di noia. 

E allora, come si spiega che gli adulti cerchino oggi occasioni di noia per i bambini e i ragazzi, in una pretesa che in fondo è paradossale?

 

Quando Walt Disney nel 1955 inaugurò Disneyland, primo dei suoi numerosi parchi tematici, i regni dell’infanzia trovarono la loro realizzazione letterale e materiale, ed è interessante notare che Disneyland prese forma nell'intuizione, precorritrice dei tempi, di un parco dei divertimenti di nuova concezione, creato affinché gli adulti potessero tornare piccoli insieme ai bambini, come affermò lo stesso Disney. Un luogo, cioè, in cui il divertimento non si identificasse più con singole attrazioni, ma con la possibilità di accedere a un mondo immaginario realizzato organicamente hic et nunc, nella realtà, e rispondente unicamente a leggi proprie. Non è un caso che fra i visitatori dei parchi Disney numericamente da sempre gli adulti prevalgano sui bambini. 

 

Jacques Touchet, illustrazione (1930) per Les Malheurs de Sophie, di Comtesse Sophie de Ségur.

 

Björn Berg, illustrazione per Emil i Lönneberga, di Astrid Lindgren, 1963.


Se l’industria dell’intrattenimento esisteva già alla nascita di Disneyland, è indubbio che con Disneyland abbia conosciuto un’accelerazione e un cambiamento radicali, e che con Disneyland sia stato sancito il diritto degli adulti a tornare, letteralmente, bambini. 

Nel film The Florida Project (in italiano Un sogno chiamato Florida, 2017) il regista Sean Baker mette in scena l’infanzia di alcuni bambini in una zona povera nei pressi di Disneyland, Anaheim. Benché l’area sia degradata e fatiscente è interamente costruita e pensata secondo lo stile di Disneyland – residence, case, centri commerciali, negozi. I suoi abitanti, nonostante la devianza, la precarietà, la mancanza di futuro e di qualsiasi risorsa per sfuggire alla propria condizione, si comportano come facessero parte del grande sogno disneyano, una sorta di sogno americano, ma privo dell’epica della fatica e della conquista, dove il diritto alla felicità cancella ogni responsabilità e memoria, censurando la realtà e la possibilità stessa di dire la sofferenza, e imponendo come unica strategia quella di nasconderla. 

È esemplare che la piccola protagonista del film, nel tentativo di sottrarsi ai servizi sociali, cerchi salvezza e rifugio oltre i cancelli di Disneyland, sorta di stato neutrale alle vicende reali che devastano il suo mondo. Una costosissima Disneyland, alla sola portata economica degli adulti, in cui in realtà, a causa del suo stato di indigenza cronica, la bambina non ha e non potrà mai avere accesso.

 

La cancellazione del discrimine fra realtà e finzione messa in atto strategicamente nei parchi Disney (e addirittura in un’intera area urbana edificata dalla Disney, Celebration, dove la gente abita e vive), costituisce il punto di svolta dell’industria dell’intrattenimento contemporanea il cui fondamentale obiettivo è la costruzione letterale di un immaginario i cui fondamenti teorici si identificano con la promessa di soddisfare tutti i possibili desideri. Una promessa condivisa con l’industria dell’advertising e che si articola in forme diverse, ma è riassumibile nell’invito costante a “non rinunciare mai a seguire i propri sogni” (“I sogni son desideri”, cantava Cinderella), a “vivere fino in fondo le proprie emozioni”, a “essere sempre se stessi”. Non è un caso che oggi qualsiasi attività, non solo di intrattenimento, sia offerta e comunicata come experience attraverso cui costruire se stessi, dallo shopping, allo sport, alla vacanza, al cinema, al teatro, perfino alla ricerca spirituale e alla meditazione. Esperienza che si fonda su uno dei cardini della produzione industriale odierna, non solo mass market: la personalizzazione, ovvero la possibilità per il cliente di costruirsi su misura il proprio ambiente, la propria vita (o meglio ‘stile di vita’) in modo che questo corrisponda più che, semplicemente, ai gusti, all’identità stessa: dalla casa, all’arredamento, al cibo, all’abbigliamento, ai viaggi, agli strumenti di comunicazione, come computer, smartphone, tablet, persino ai libri, ai giochi e ai film, in un processo di riflessione totale, dove l’imperativo di essere se stessiè ribadito e sottolineato in tutte le possibili scelte d’acquisto e non. Si potrebbe anche dire che tutte le attività, compreso il lavoro e la scuola, siano strutturate e organizzate in modo sempre più simile a esperienze di enterteinment, soprattutto negli obiettivi finali che sono quelli di una rassicurante e soprattutto gratificante appartenenza, adesione, identificazione del soggetto al proprio contesto, a ‘se stesso’, senza scarti. La grande esclusa in tutto ciò, è l’esperienza della frustrazione, nemica numero uno di ogni riuscita attività di intrattenimento. Ovvero il processo di costruzione dell’identità avviene, in questo ambito, esclusivamente attraverso processi di identificazione, mai di frustrazione, di contrapposizione.

 

 

Maxfield Parrish, illustrazioni per The Golden Age, di Kenneth Grahame, 1900.

 

Con l’avvento della moderna industria dell’intrattenimento, nella quale si riflettono i grandi cambiamenti sociali, economici e culturali intervenuti dopo la seconda guerra mondiale, il rapporto fra le generazioni è completamente cambiato. Oggi, il tempo dei bambini e dei ragazzi è organizzato dagli adulti in modo diverso rispetto al passato nel quale la famiglia aveva il compito di indirizzare la crescita, facendo in modo che i bambini imparassero a rispettare e frequentare i tempi e i luoghi collettivi e sociali del lavoro, della scuola, della strada, della città, del commercio eccetera. Oggi la famiglia non è più il luogo deputato dalla società alla trasmissione dei comportamenti condivisi collettivamente. La famiglia è un luogo affettivo prima che educativo, dove adulti e bambini stanno prima di tutto insieme, nella condivisione di affinità, piaceri, gusti, intrattenimenti, esperienze. Non è la condivisione sociale il collante della famiglia, ma l’affettività che giorno per giorno crea lo stile familiare, spesso giocato intorno alle personalità dei figli che stanno crescendo con i quali si instaura un rapporto paritario dove le differenze di età e di ruoli si annullano. L’esperienza della frustrazione vissuta dai bambini all’interno della famiglia, e legata all’apprendimento di norme, regole, abitudini, si è ridotta significativamente con il tramonto della funzione educativa, lasciando spazio all’esperienza della gratificazione legata all’affettività e alla condivisione. 

Il processo della trasmissione, infatti, che un tempo era garantito come dovere specifico e di cui la famiglia era socialmente investita, è diventato casuale, non più legato a un compito ma a contingenze e scelte individuali, e può non verificarsi affatto, e questo trasversalmente, in tutte le classi sociali, da quelle più disagiate alle più colte e benestanti. Quello che conta è fare esperienze insieme, e fare in modo che i bambini facciano il maggior numero di esperienze nuove, piacevoli, divertenti, arricchenti, educative, istruttive. In questo contesto, la trasmissione del sapere adulto alle giovani generazioni è accessoria, non occupando più un ruolo di primo piano, e soprattutto non essendo più richiesta dalla società, organizzata sempre meno come comunità, e sempre più come aggregato composito di entità individuali. La debolezza delle istituzioni come la scuola, deputate all’educazione e all’istruzione, in questo senso è sintomatica. Unici organismi preposti da ciò che rimane dello Stato sociale a garantire il processo di trasmissione culturale di norme, comportamenti, saperi, le scuole sono sempre più spesso avvertite dalle famiglie come inadeguate ai propri compiti, e in aperto conflitto con le culture familiari. Il problema è che la scuola è un’esperienza complessa, che prevede fra le sue esperienze anche quella della frustrazione, poiché inevitabilmente è il luogo in cui l’individuo, lasciato l’alveo familiare, fa il proprio ingresso nel gruppo, nella società, con tutte le problematiche del caso. 

 

Sean Baker, The Florida Project, 2017.

 

Gabriel Pacheco, illustrazione per El libro de la selva, di Rudyard Kipling, Editorial Sexto Piso, 2013.


È in questo quadro che va a mio avviso contestualizzata la necessità avvertita da numerosi adulti, in particolare da coloro che sono implicati nei processi educativi, insegnanti, educatori, genitori eccetera, di ricostituire l’esperienza della noia e restituirla ai bambini e ai ragazzi come ineludibile momento di crescita per scoprire, attraverso esperienze di costruzione autonoma, la propria identità. E tuttavia, sebbene questo invito sia condivisibile, mi pare sia necessario rilevare le fondamentali differenze fra il ruolo che ha avuto la noia, esaltata da tanta letteratura per l’infanzia, nella formazione dell’identità infantile, e l’esperienza della noia che può fare un bambino oggi, considerata la radicale diversità dei contesti storici, culturali e sociali in cui la noia matura.

Un buon esempio, in questo senso, è Un grande giorno di niente, libro da cui mi è stato proposto di partire per questa riflessione sulla noia, in occasione di una conferenza che si è tenuta il 25 maggio scorso al MUSE di Trento, organizzata da Hamelin Associazione e Cooperativa La Coccinella, durante il Festival 1, 2, 3 Storie!. In questo albo illustrato, l’autrice, Beatrice Alemagna, pur riallacciandosi alla tradizione letteraria dell’infanzia come età dell’oro, legata alla natura, oltre che alla noia come canale di accesso a esperienze di selvatichezza e di scoperta identitaria, mette in scena una situazione attuale. La storia comincia così:

Eravamo lì per la centesima volta.

Io e mia madre nella solita casa di vacanza.

Con la solita foresta. E la solita pioggia.

 

Ogni giorno mia madre scriveva in silenzio, mentre io uccidevo i marziani.

Schiacciavo un bottone, per ore, pensando a mio padre, a tutto quello che mi avrebbe mostrato fuori di qui. Un sacco di meraviglie. 

 

In scena ci sono una madre e un figlio, ma anche una casa di vacanza, un oggetto – un videogioco –, e tutto intorno un ambiente naturale lussureggiante.

Il bambino si annoia: la madre è costantemente impegnata a scrivere al computer, e il luogo in cui si trova non gli riserva alcuna sorpresa. La sua risposta alla noia, quindi, è un videogioco. Irritata dalla passività del figlio, la madre lo sgrida, obbligandolo a uscire di casa, e strappandogli il gioco di mano: «Smettila con quel gioco! Devi proprio stare lì tutto il giorno a non far niente?». Il figlio riafferra il videogioco e precipitosamente esce di casa, sotto una pioggia scrosciante: non per ubbidire alla madre, ma per sottrarsi alla sua invadenza. 

È interessante notare che nelle prime pagine, madre e figlio sono sostanzialmente vestiti uguali ed entrambi alle prese con oggetti tecnologici – nel caso della madre, per lavoro; nel caso del figlio, per intrattenimento. Se secondo il modo di vedere adulto, il lavoro legittima il computer, il tempo libero non autorizza il videogioco. Tuttavia, se si prova a cambiare punto di vista, non è difficile comprendere come un bambino che veda un adulto passare ore al computer, non trovi niente di strano a occupare il proprio tempo con un videogioco. L’elemento nuovo, nella situazione narrata, è proprio il videogioco: quel «schiacciavo un bottone per ore» allo scopo di uccidere marziani, fa prendere una nuova direzione al tema della noia. Sarà solo nel momento in cui il bambino, fuggito di casa, perderà il gioco nel laghetto, saltando sui sassi, che avrà accesso alla conoscenza della natura, rappresentata qui come ripidissima discesa ‘infera’.

In questo albo, l’atmosfera della storia, l’esperienza emotiva del protagonista sono raccontate dalle immagini più che dal testo, che ha quasi esclusivamente funzione di trama. Sono le immagini a trasmettere al lettore la qualità dell’avventura, il carattere dei personaggi, degli oggetti, degli scenari. Il videogioco è rappresentato con ironia da Alemagna come un generatore seriale di marziani tutti uguali, che escono dallo schermo in una proliferazione atona e ripetitiva, tratteggiati in modo elementare, privi di carattere e identità. La presenza dell’oggetto è sempre accompagnata da questa emorragia incontrollabile di ideogrammi. Nella prima immagine, in cui si vede il bambino steso sul divano maneggiare il videogioco, il flusso di marziani non esce dallo schermo, bensì dalla sua testa, in una sorta di processo di trasmissione telepatica dal mezzo tecnologico ai pensieri. 

Inoltre, se il bambino attribuisce la noia, come si evince dalle sue parole, a una casa e a un luogo definiti come ‘soliti’, nelle illustrazioni la ricchezza di dettagli fa sì che sia la casa sia la natura circostante siano articolate in forme dettagliate e inconsuete, descritte da particolari seducenti. 

 

 


Beatrice Alemagna, Un grand jour de rien, Albin Michel Jeunesse 2017 (edizione italiana Topipittori).


La situazione narrata è nuova, rispetto alla letteratura precedente in cui nessun adulto avrebbe mai dovuto preoccuparsi di spingere un ragazzino all’avventura, spontaneamente cercata grazie alla noia provocata dalla presenza adulta e dalle sue convenzioni. Lo spazio della noia qui è stato occupato dall’intrattenimento, ma non solo: anche da una presenza adulta che ha canonizzato nell’avventura la reazione corretta dei bambini alla noia. Il comportamento che la madre si aspetta dal figlio annoiato è quello avventuroso: vorrebbe che suo figlio uscisse di casa, facesse movimento, scoprisse, esplorasse, proprio come hanno sempre fatto i bambini liberi e creativi, selvaggi nei libri per ragazzi. Il figlio si ribella a questa visione, a un’avventura diventata convenzione, e per questo, paradossalmente, si allontana da casa. Lo spazio libero della noia, è stato occupato non dalla libertà dell’avventura, ma dal suo ‘obbligo’. Paradossalmente, la madre diventa prescrittiva nel momento in cui il figlio sceglie un passatempo casalingo.

L’avventura in questo modo per il bambino non si configura come una reazione al conflitto con un mondo adulto noioso, ma paradossalmente come risposta ai suoi desiderata. Se il bambino fugge da casa è per mettere in salvo il videogioco, non per desiderio di avventura. Solo nel momento in cui il bambino smarrisce il videogioco, ha accesso a una dimensione di libertà che esclude la madre. E potrà accorgersi davvero di quello che ha intorno senza che questo corrisponda alle attese adulte. Il territorio della noia e dell’avventura, ci dice questo libro, devono essere vergini, inesplorati se aspirano all’autenticità, senza interferenze adulte. L’avventura è avventura solo se è autonomia, rischio, scelta personale, azzardo, solitudine (di cui è emblematica l’immagine in cui il bambino cade, rotolando lungo un prato in pendio).

È soprattutto grazie a un apparato visivo di grande forza e sottigliezza che l’autrice del libro conduce il livello di narrazione più interessante di questa storia. Beatrice Alemagna per le immagini sceglie una chiave fiabesca e allucinatoria a rappresentare la dimensione psicologica e sentimentale dell’esperienza infantile. La cappa arancione fosforescente che il bambino indossa durante l’avventura rimanda a uno dei più celebri personaggi di fiaba, Cappuccetto Rosso, introducendo a un’idea di natura, come selva da attraversare e in cui smarrirsi, al tempo stesso attraente e minacciosa, ambigua, misteriosa. Se nella casa le proporzioni di personaggi, oggetti e ambienti sono realistiche, nella natura ogni misura è nuova e sovvertita, come mostra una delle immagini finali in cui il bambino vede tutto al contrario, sdraiato sul cielo con il bosco rovesciato sopra la testa. Lumache e funghi appaiono giganteschi, veri e propri personaggi che interagiscono con il protagonista da pari a pari. La luce cupa del temporale è rotta da strani raggi di luce, quasi fantascientifici, così come la materia oscura della terra è accesa da corpuscoli brillanti che il bambino scopre attraverso il tatto, immergendo le dita nella terra. 

L’avventura del protagonista si conclude con il ritorno a casa della quale questa volta il bambino apprezza l’atmosfera protettiva e accogliente, connotata da un silenzio che anziché risultare opprimente e separare madre e figlio, li accomuna: «Per la prima volta stavamo ascoltando lo stesso silenzio» osserva, scegliendo al contempo di lasciare intatta questa dimensione, senza necessità di raccontare ciò che gli è accaduto. Ed è significativo che il bambino scelga di non condividere, se non attraverso il silenzio, la propria esperienza. L’avventura che ha vissuta rimane un segreto.

 

 

 

Beatrice Alemagna, Un grand jour de rien, Albin Michel Jeunesse 2017 (edizione italiana Topipittori).


Un grande giorno di niente offre diverse chiavi di lettura e indubbiamente, come accade per molta letteratura per l’infanzia, in modo particolare illustrata, la chiave adulta può essere molto diversa da quella infantile. Se un genitore si concentrerà soprattutto su quello che parrebbe essere il messaggio centrale – natura vs tecnologia –, gratificato all’idea di un libro che esorta i piccoli a essere avventurosi, a scoprire la bellezza e ad abbandonare tecnologie vissute come minacciose per la salute dei figli, i bambini disinteressati alla pedagogia della noia e ai suoi messaggi didascalici, possono trovare interesse in una visionarietà di rappresentazione che corrisponde a un punto di vista che praticano quotidianamente: per esempio la piccolezza di un protagonista ritratto in un universo arduo e dalle dimensioni immense, o l’incontro magico con presenze e figure a cui sono attribuite dimensioni diverse da quelle reali. O, ancora, una disubbidienza e una frustrazione che si mutano in scoperta.

Qualche tempo fa un bibliotecario mi ha scritto per informarmi che durante il concorso annuale SuperElle, organizzato da alcune biblioteche lombarde, Un grande giorno di niente, fra sessanta libri in lizza, è risultato l’albo più votato dai bambini di tre istituti di primaria. Questa preferenza infantile mi ha fatto riflettere, soprattutto in relazione ad alcune critiche ricevute dal libro, avvertito come didascalico rispetto al tema trattato (o meglio, alla lettura adulta di esso fatta). Sono certa che la ragione per cui un bambino può trovare questo libro interessante poco ha a che vedere con la condanna della tecnologia e molto con un universo infantile rappresentato come contraddittorio, imperfetto, straniato, sbilenco, pericolante, umoristico, che nel segno inconfondibile di Beatrice Alemagna trova un’interprete magistrale.

 

Martino Negri nel già citato saggio Pierino Porcospino. Prima icona della letteratura per l’infanzia, spiega con chiarezza, rifacendosi alle parole, fra gli altri, di Comenio, Heinrich Hoffmann e Walter Benjamin, come nei libri illustrati per l’infanzia, e in particolare negli albi, le immagini, svolgano un ruolo centrale nella narrazione, particolarmente vicine alla percezione e alla sensibilità dei bambini e determinanti, pertanto, nella ricezione e interpretazione della lettura. Pierino Porcospino, in questo senso, risulta «una figura emblematica e rappresentativa della letteratura per l’infanzia, in quanto territorio di incontro e di scontro tra istanze educative e tensioni estetiche, nonché tra intenzioni autoriali ed effetti sul lettore…».

Considerazioni importanti, queste, che mettono in luce come l’intera storia della letteratura per l’infanzia sia attraversata dalle questioni fondamentali dell’hidden adult, «l’autore del racconto, l’adulto nascosto tra le pagine del libro, con il suo carico di tensioni, idee, esperienze, e della dual audience, il doppio pubblico cui il libro idealmente si rivolge, ovvero i bambini per quali la storia è concepita e gli adulti che gliela leggono.» 

Un dato di fatto da cui non è possibile prescindere nella valutazione di questa letteratura e che ha il grande merito di mettere in luce un aspetto fondamentale nella considerazione dell’infanzia e dei libri a essa destinati: la necessità di un approccio “non sentimentale” che preservi la fondamentale distanza fra adulti e bambini e sottolinei l’alterità dell’età infantile rispetto a quella adulta.

 

Beatrice Alemagna, Un grand jour de rien, Albin Michel Jeunesse 2017 (edizione italiana Topipittori).


Una questione di metodo che andrebbe adottata senza incertezze, e che su molte questioni aiuterebbe a tenere uno sguardo lucido e attento, oltre che una giusta distanza e una consapevolezza dei processi proiettivi in atto. A partire, per esempio, proprio dalla questione della noia, che mostra tutta l’ambiguità della relazione adulto-bambino: un mondo adulto che da un parte lascia sempre meno libertà ai bambini, non solo nell’ambito dell’intrattenimento, accompagnato da una iper produzione di gadget e intrattenimenti studiati ad hoc per riempire tutti i vuoti del tempo e dello spazio infantili, e che dall’altra, in ambito pedagogico, attraverso una visione terapeutica della noia, medicalizza l’avventura, sottraendola ai bambini come spazio di libertà autentico che nasce da una distanza, un’incomprensione fra adulto e bambino, entrambe generatrici di identità e di infinite occasioni di conoscenza, di sé e del mondo. 

«Niente sembra mai interessante, quando ti appartiene: lo diventa solo quando non è tuo» scrive Natalie Babbit, grande autrice per l’infanzia, in La fonte magica, romanzo la cui protagonista, annoiatissima, scappa felicemente da un ménage familiare verso la grande foresta dell’avventura. Forse gli adulti dovrebbero cominciare a pensare seriamente a rinunciare all’impulso di “dare tutto” ai bambini: un’offerta che ha tutta l’aria di una minacciosa sindrome di controllo, una pienezza che forse riguarda più il loro vuoto, che quello dei bambini, riempito a dismisura. Forse dovrebbero lasciarli più vuoti, questi spazi e questi tempi dei bambini, soprattutto della propria presenza. 

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Cicero De (pro) domo sua

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La casa. La casa. La casa di Montecarlo. La casa di via Fagutale, con vista sul Colosseo. La casa regalata (o quasi). La casa.

La casa di Montecarlo, ossia, come dicono tutti, l’inizio della fine, per la carriera politica dell’ex-onorevole Fini. La casa di via Fagutale, proprio davanti al Colosseo, che tante noie procurò a suo tempo all’ex-ministro Scaiola. La casa che il costruttore Scarpellini donò (o quasi) al dottor Marra, influente funzionario del Comune di Roma.

Ma si potrebbero citare altri nomi e altre case. Quelle di Tremonti o Calderoli, o l’appartamento che usava Renzi a Firenze, in via Alfani, e di cui pagava l’affitto l’amico Carrai.

Sono tutte vicende note. E non importa molto che abbiano o meno rilevanza penale. O che l’abbiano avuta. 

 

È il ruolo della casa, della Casa, della CASA, che spicca.

Senza tralasciare analoghe questioni legate a case e politici della cosiddetta Prima Repubblica. La casa di D’Alema, la casa di De Mita e di vari altri.

Di solito si trattava di immobili di pregio, di pertinenza di Enti Pubblici, che li affittavano per un tozzo di pane (e poi li vendevano anche, e sempre per un tozzo di pane) a noti uomini politici, e pure a quelli meno noti.

Mi pare che anche Capanna e Pannella, se non sbaglio e se non ricordo male, furono lambiti in un remoto passato da polemiche di natura edilizio-abitativa. 

 

Personalmente non sono né un giornalista né un esperto immobiliare, però mi vien quasi voglia di rievocare, seppur per sommi capi, la vicenda e l’opera che pare sempre più profilarsi come l’archetipo immortale di tutti questi episodi presenti, pescati dall’attualità più o meno recente.

Sto parlando, come forse si sarà intuito, dell’orazione di Cicerone che va sotto il nome di Pro domo sua, ossia l’orazione “per la sua casa” “in favore della sua casa”, benché il titolo effettivo, attestato dalla tradizione manoscritta, sia in realtà De domo sua, cioè Orazione sulla sua casa, a proposito della sua casa. (Mutamento minimo, apparentemente, ma secondo me molto rilevante, sul quale mi soffermerò in seguito).

Si tratta di un’orazione tenuta davanti al Collegio dei Pontefici, le massime autorità religiose della Repubblica, nel settembre dell’anno cinquantasette avanti Cristo. Cicerone era appena tornato dall’esilio. La sua casa sul Palatino era stata rasa al suolo; al posto di essa era stato consacrato, per sfregio, un tempio alla dea Libertas, la Libertà. L’oratore voleva che venisse riedificata la sua antica dimora, esattamente dove stava prima. Il tempio alla Libertà, grottesca offesa gratuita, doveva venir distrutto. Il suolo sconsacrato, per permettere la ricostruzione di un’abitazione privata, la sua, quella di prima. Cicerone pretendeva di venir reintegrato nei suoi possessi a spese pubbliche. Glielo si doveva.

La vicenda è nota, ma la ricostruisco brevemente lo stesso.

 

Cicerone aveva sì salvato la patria, scoprendo la congiura di Catilina nell’anno sessantatré avanti Cristo, ma aveva anche mandato a morte senza processo i Catilinari. Cinque congiurati, tutti cittadini romani, erano stati giustiziati dal boia senza che avesse avuto luogo la provocatio ad populum, ossia l’appello al popolo, riunito nei Comizi, che solo poteva confermare o annullare le sentenze capitali relative ad un civis romanus. Questo imponevano le leggi, a partire dalle antichissime leges Valeriae, in vigore fin dagli albori della Repubblica, e poi confermate successivamente da tutta una serie di altre leggi analoghe.

Cicerone sosteneva che la legalità ordinaria era stata sospesa dal senatus consultum ultimum, cioè l’equivalente del nostro stato d’assedio.

 

Ph Todd Hido.


Quando si proclama lo stato d’emergenza, le leggi normali non sono più in vigore. Se lo Stato è in pericolo, l’importante è salvarlo a ogni costo. Costi quel che costi.

Non la pensava così il tribuno della plebe Publio Clodio. Il quale, appena assurto alla sua carica, nel 58 a.C., fece approvare una legge, lex Clodia de capite civis romani, che prevedeva l’esilio per chi avesse fatto condannare senza processo (e senza appello al popolo) dei cittadini romani. La legge aveva per di più valore retroattivo. Era una legge ad personam. Una delle molte che si possono ritrovare in quell’epoca. O forse potremmo definirla contra personam o, più correttamente e secondo una vetusta espressione del diritto romano, un privilegium, una norma creata appositamente contro una persona specifica.

 

Chi manovrava Clodio voleva dunque far fuori Cicerone. Pare che fosse Cesare a guidare l’operato del neo-tribuno della plebe, ch’era per parte sua nobilissimo, oltre che fratello di Clodia, la Lesbia di Catullo.

Per accedere alla carica Clodio si era fatto adottare da un plebeo, che era, per giunta, un ragazzo sui vent’anni. Quindi abbiamo un padre adottivo più giovane di circa quindici anni del proprio pargolo adottato.

Ma Clodio nutriva anche di suo un certo inestinguibile rancore nei confronti di Cicerone. Questi infatti aveva testimoniato contro di lui nel processo per il sacrilegio delle cerimonie in onore della Bona Dea. E ciò solo pochi anni prima, nel 62 avanti Cristo.

Cos’era accaduto?

Nel corso della Festa della Bona Dea, che veniva celebrata in casa del pretore in carica Cesare da sua moglie, Pompeia, e da altre donne, solo donne, perché così esigeva il rituale di questa dea misteriosa, Clodio s’era introdotto in quella abitazione, travestito da donna, ma era stato scoperto. Ne era nato un enorme scandalo. Nessun uomo poteva entrare in uno dei luoghi dove si celebrasse la Dea Buona. Nemmeno i topi maschi erano ammessi, si diceva. L’amante della moglie di Cesare aveva profanato platealmente uno dei riti più antichi e più segreti.

Eppure, aveva giurato Clodio, lui non c’era, quel giorno lì, a Roma. Era a Interamna sul Liri. Aveva dei testimoni.

 

Cicerone invece lo sbugiardò in tribunale, sostenendo che proprio in quella data, il cinque di dicembre, Clodio si era recato da lui, a Roma, per parlare del più e del meno, dato che, fino ad allora, Clodio e Cicerone erano amici.

Nessuno sa perché Cicerone smentì l’alibi di Clodio in modo così smaccato. Plutarco sostiene che fu Terenzia, sua moglie, a sobillarlo, perché lo vedeva troppo vicino a Clodia, la seducente sorella di Clodio, e voleva che rompesse con lui e con tutti i suoi pericolosi parenti. Ma non si sa se le cose stavano veramente così e non ci fosse forse dell’altro. Dell’altro che avesse a che fare magari con Cesare. 

Sta di fatto che la lex Clodia fu approvata. Che Cicerone, il salvatore della Patria, lasciato solo, dovette abbandonare Roma e andarsene in esilio. La sua casa fu prima saccheggiata e poi distrutta da Clodio e dalle sue bande di facinorosi. E pensare che Cicerone l’aveva comprata da Crasso, quella splendida casa sul Palatino, la zona bene della Roma antica, da cui si dominava il Foro. Gli era costata la cifra favolosa di tre milioni e mezzo di sesterzi.

 

Come in varie altre sue orazioni anche in questa De domo sua Cicerone non parla subito di ciò che gli sta veramente a cuore. 

Anche qui, davanti ai Pontefici, come già nelle cause che vedevano imputati Cluenzio o Marco Celio o Sestio, l’oratore si produce in lunghe divagazioni. Nella fattispecie si dilunga su Pompeo e sul perché gli sia stata conferita la cura annonae, cioè l’incarico di provvedere alla fornitura di grano per Roma; poi naturalmente passa a demolire la figura di Clodio, sua bestia nera, come già Catilina e come poi Marco Antonio. 

In effetti come poteva un sacrilego manifesto come Clodio permettersi di consacrare un tempio alla Libertà sulle rovine della casa di Cicerone? Oltre a questo su Clodio gravava il sospetto di rapporti incestuosi con l’affascinante sorella (Clodia-Lesbia).

 

Dopo questa lunga apoplanesis, ossia digressione estesa, solo al paragrafo 100 Cicerone espone la tesi centrale della sua argomentazione in favore della sua casa: se voi, Pontefici, sostiene l’oratore, mi reinsediate nella mia casa, allora mi sento realmente richiamato dall’esilio; se no questo mio non sarà un vero ritorno, piuttosto una pena perpetua. La mia casa è esposta alla vista di tutti; se nella sua area resta quello che non è un monumento, ma un sepolcro con l’iscrizione del nome del mio nemico è meglio per me trasferirmi altrove, conclude Cicerone (si manet illud non monumentum sed sepulcrum inimico nomine inscriptum, demigrandum potius aliquo est quam habitandum in ea urbe).

Viene stabilito un vincolo fortissimo, un legame potente e indissolubile tra la casa e la figura pubblica dell’uomo politico. La sua casa, visibile all’intera comunità, dato che è sul Palatino, dev’essere il simbolo della sua ricomparsa effettiva nella vita operosa di Roma.

Cicerone è la sua casa. Senza casa, niente Cicerone. Solo il suo spento simulacro.

Potenza di un edificio!

Già prima, quando rievocava gli atti intimidatori commessi ai danni dei suoi cari rimasti in Roma, il nostro oratore li associava alle analoghe violenze perpetrate contro la casa: alle mie pareti, al mio tetto, alle mie colonne e alle mie porte voi [Clodio e i suoi scherani] avete mosso una guerra nefanda e senza quartiere, ispirata da un odio invincibile (qui parietibus, qui tectis, qui columnis ac postibus meis hostificum quoddam et nefarium omni imbutum odio bellum intulistis…).

Quale tenerezza per la propria abitazione! Che affetto per questa casa, di cui si numerano le varie parti, in un elenco commosso! È quasi più di una persona in carne e ossa! Pare che i danni all’immobile di pregio siano per lui ancor più dolorosi da sopportare che le sofferenze inflitte ai familiari, alla moglie, ai figli piccoli.

 

Allora si capisce che la denominazione dell’orazione abbia subito la virata che ha subito. Da un neutro de domo sua a un partecipato e emotivamente coinvolto pro domo sua.

La deformazione del titolo, che poi è anche giustamente passata in proverbio, esprime plasticamente, concretamente tutto il valore, anche sentimentale, che la sua casa ha per lui, Cicerone, nobile progenitore, in questo, di schiere di suoi nipoti e nipotini postumi, l’abbiano letto o meno, cosa che in fondo non conta molto, tanto il comportamento risulta simile.

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Improvvisamente il Mediterraneo (e altro ancora)

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Il successo di una manifestazione che si ripete da vent’anni in una città culturalmente non facile come Genova deve avere ragioni profonde o inaspettate. Un evento peraltro dalla durata non indifferente (dieci giorni) che all’inizio di ogni estate indugia e trattiene le serate di turisti e residenti. Circa settantamila le presenze nell’edizione dell’anno scorso e numeri altrettanto elevati in quelle precedenti. Un successo che si fa forte della partecipazione di ospiti di assoluto prestigio; e poi parole e idee che potrebbero essere sufficienti a spiegare l’interesse che i Genovesi dimostrano alla manifestazione. sebbene quest’interesse, da solo, probabilmente non basterebbe.

Certamente giova la posizione, di indubbio fascino, specie dopo il tramonto, quando le prime ombre si allungano sul Porto Antico, e dal mare risalgono sentori antichi fino a quel momento coperti dal calore estivo e dalla vita urbana che corre a pochi metri. È del resto in queste ore, a due passi dal Bigo di Renzo Piano, dai Magazzini del Cotone e dalla antica darsena, che Genova sembra ricongiungersi alla sua storia, riacquistare la sua identità – fragile quanto evidente – di città sospesa tra mare e monti. È soprattutto a quell’ora che lentamente il Suq si anima prendendo vita fino a notte inoltrata. Tutto su una terrazza letteralmente affacciata sul porto sul mare e su tutto il Mediterraneo che si intuisce oltre l’orizzonte fiammeggiante. 

 

 

Il Suq festival nasce nel 1999 da un’idea di Valentina Arcuri e di Carla Peirolero che ne è anche direttrice artistica. Carla – attrice teatrale, autrice, regista – e il suo staff, con intelligenza e passione, mettono in scena ogni anno un’impresa notevole, dal valore nazionale nonostante risorse economiche limitate e di non facile reperimento. Ospiti culturali di assoluto valore, musica (quest’anno sarà ospite Teresa De Sio), incontri, dibattiti, eventi ma anche botteghe, artigiani, il cibo e la cucina tradizionale di molti paesi mediterranei, dell’Africa, delle Americhe, dell’Asia. È dunque anche un caleidoscopio di colori, un mosaico di aromi, suoni quello che ogni sera si anima nel Porto Antico.

Del resto, il significato della parola Suq era ed è proprio questo: un luogo di scambio, di incontro, di intrattenimento ma anche luogo di conoscenza se è vero che i sensi e le parole – nei suq come negli antichi mercati al di qua del Mediterraneo – erano lo “strumento” che veniva prima di ogni commercio e prima di ogni compravendita. 

 

Inevitabile allora che in questi anni il Suq festival – proprio come suq, come mercato, come luogo di incontri – sia stato un teatro reale in cui si è cercato e dato conoscenza, in cui hanno trovato scena temi come emigrazione e accoglienza, pace e tolleranza, confronto tra tradizioni e religioni, sviluppo sostenibile, popoli e culture, diversità ed omologazione, arte ed economia...

Temi di assoluta importanza per la società che siamo, e negli ultimi anni, temi peraltro anche difficili, scomodi... eppure il successo del Suq festival è continuato, anche in tempi recenti. In mezzo, gli anni degli inizi e della crescita, il 2004 con Genova capitale europea della cultura e lo spostamento del festival al Porto Antico, i patrocini della Commissione italiana Unesco, dei Ministeri degli Esteri, dell’Ambiente, l’accreditamento da parte del MIBACT come festival teatrale e il suo sostegno. Anni luce distanti da quel sospetto di “festival al fritto misto” con cui in ambito locale il Suq veniva talvolta guardato all’inizio...

 

 

Gli attori e i protagonisti dicevamo... negli anni ci sono stati ospiti del calibro di Adonis, Julia Kristeva, Predrag Matvejevic, Fadela Amara, Ferzan Őzpetek, Moni Ovadia, Ascanio Celestini, Federico Rampini, Massimo Carlotto, Marino Niola, Domenico De Masi, Cecilia Strada, Marco Aime, Vauro e molti altri ancora. Di questo “teatro” e di questi temi, don Andrea Gallo è stato poi per molte volte amico, protagonista, animatore convinto ed infaticabile.

Certo insieme alla parola e alla conoscenza c’è anche l’altro lato del suq, ci sono gli incontri tra persone, ci sono i sapori e gli odori dell’intero Mediterraneo e di altre regioni che letteralmente circondano il centro della piazza dove il palco, rialzato poco più di un gradino, ospita la musica, il canto, la parola. E se la musica e il canto con il ritmo e la melodia hanno il potere di richiamare e intrattenere i visitatori agendo su corde diverse dalla razionalità, le parole – le interviste, i dibattiti, le conferenze, le testimonianze – talvolta possono faticare a trovare ascolto nell’arena circostante penetrando e disperdendosi tra kebab e tortillas, tapas e formaggi, acciughe salate, frutta secca, spezie, cuscus e soprattutto tra il via vai della gente attratta da colori, odori e sapori. 

Ma forse questo è semplicemente voluto, o almeno accettato. Del resto deve essere stato così anche negli antichi mercati, così nei suq dove l’attenzione alla parola doveva “correre leggera”, avvolta com’era da tutta la vita che scorreva intorno, dove la curiosità veniva prima della conoscenza e spesso si fermava lì. Forse è questo il vero motivo del successo del Suq festival: il riprodursi (quanto involontario?) dell’atmosfera degli antichi mercati, luoghi che erano vicini alle nostre corde ancestrali fatte di una conoscenza a più dimensioni, dove i sensi, tutti, contavano almeno come la razionalità, dove l’ascoltare, il parlare contava come il conoscere e il capire, dove il mangiare contava come il guardare. Perché al Suq festival si viene per guardare e per mangiare certo... ma si viene anche per conoscere senza sapere come questo avverrà.

 

 

Il Suq che si apre il 15 Giugno (Donne isole e frontiereè il tema di quest’anno) celebra i vent’anni; lunga vita al Suq festival dunque, che in una Genova affacciata sul Mediterraneo ma anche su un futuro dalla vocazione incerta, contribuisce a definire alcuni dei temi della società e della cultura odierna, così come di quest’ultima evidenzia alcune capacita di intrattenimento e insieme educative.

 

Il tutto con la regia di uno staff quasi tutto al femminile, elemento caratterizzante che Carla Peirolero ama rilevare semplicemente per l’evidenza nuda del fatto in sé e per la passione che occorre come “qualità” per tenere assieme un’iniziativa così complessa. Ma anche forse perché uno sguardo al femminile maggiormente “morbido sul mondo” può essere un vantaggio nell’affrontare certe tematiche.

Poi, nel mondo delle cose perfettibili, per l’edizione del prossimo anno, forse mi piacerebbe chiedere a Carla Peirolero di ragionare anche sulla possibilità di un piccolo spazio raccolto, sempre all’interno del Suq, dove magari sia possibile solo bere e dove le parole possano avere più cura, possano dare e ricevere più attenzione. Non perché sia un difetto del Suq festival ma perché lo sta diventando per la nostra società, quello di concepire una convivialità sempre più legata al cibo e sempre meno alla parola. Uno spazio che riscopra pienamente l’attenzione dell’incontro e della conoscenza. Potrebbe essere forse un “angolo del the” o anche un caffè nello spirito di George Steiner quando afferma che i caffè in tutta Europa sono il luogo della conversazione e un’“idea” della stessa Europa.

 

Certamente, così come è, nella formula che ne ha garantito la sua “lunga vita”, il Suq festival rimane forse l’unico dei festival culturali del nostro paese il cui il visitatore esperimenta insieme curiosità, piacere e conoscenza passando attraverso uno strano stupore.

Uno stupore che sorprende, simile a quello che probabilmente si doveva provare in un antico mercato, in un caravanserraglio, un suq, un bazar, nei quali si entrava per uscirne alla fine in qualche modo frastornati e rinnovati.

Inaspettatamente, potrebbe essere anche questa la ragione del successo del Suq festival.

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Suq festival, dal 15 al 24 giugno a Genova
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L'arte di non avere niente

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Ogni tanto fa bene fermarsi, per rifiatare con la mente e il corpo, per dare un occhio al nostro macchinario e valutare l’insieme della vita che conduciamo. In corsa questo non si può fare senza il rischio di non capire, di non vedere e di decidere malamente sul da farsi futuro. Questa è la lunghezza d’onda in cui si muove Less is more. Sull’arte di non avere niente (Il Saggiatore 2018) di Salvatore La Porta. E diciamo subito che è difficile non aderire alle idee del suo libro, per una semplice questione di buonsenso. 

Il tema non è certo nuovo, che noi umani potremmo vivere meglio con meno è già ben noto ai cinici e a Epicuro, quindi il punto non è questo. La Porta, piuttosto, ci dice che proprio quell’idea è all’altezza dei nostri tempi, che esattamente quel punto di vista può funzionare benissimo nelle società dalle iperboli consumistiche che siamo riusciti a sviluppare qui nel West economico, dove l’ipereconomia sta plasmando il globo con dinamiche ultradimensionate. Noi possiamo esercitare la nostra volontà, anzi la nostra capacità di volere ciò che in realtà siamo, proprio qui, nel giardinetto che ciascuno di noi si è tirato su, riempiendolo con meticolosità di un mucchio di cose, di “proprietà”, come le chiama La Porta, fino a formare una specie di corazza che ci protegge, e che, anche, ci rappresenta e significa nel mondo. 

Less is more non è un manualetto di istruzioni per vivere con pochi soldi; magari lo fosse, magari si potesse consegnare le nostre coscienze a un piccolo know-how book per campare meglio (e il motto di Mies van der Rohe direi che c’entra molto poco). La posta in gioco analizzata da La Porta è assai più ambiziosa: si tratta di capire che siamo schiacciati da una massa di “cose” per il raggiungimento delle quali, senza accorgercene, sacrifichiamo la vera essenza della nostra vita, di ciascuno di noi. Ci si agita e si soffre e si affrontano conflitti quotidiani per aggiungere una nuova tra le diverse altre “proprietà”: oggetti, rapporti di lavoro, situazioni sociali, ambizioni, aspirazioni. E poi si vive nelle precise conseguenze che dal possesso di queste “proprietà” derivano, sino a dimenticare o a non vedere più che “la vita è altrove”, per dirla con Kundera. 

 

Tuttavia “slegarsi dai falsi bisogni e dalle imposizioni che questi seminano nelle nostre esistenze, in modo da essere liberi di seguire più fedelmente le nostre idee” (p. 12) non è un percorso di semplice meccanica della vita, non basta dirlo. Bisogna prima “accettare la possibilità della sconfitta, comprendere che la perdita della propria posizione non è la fine del combattimento, ma una nuova opportunità di attacco” (p. 16), dice La Porta rinviando al pensiero di Jigoro Kano, fondatore del judo. 

La paura di perdere le nostre conquiste, le nostre proprietà, è il vero nemico che ci impedisce di uscire dalla schiavitù imposta dai nostri averi ai quali pensiamo sia legata la nostra stessa identità. Così, con questa inconsapevole certezza, c’è chi sa liberare il proprio coraggio e sconfiggere l’oppressione degli averi. Mark Twain perseguirà (anche con quel buffo pseudonimo) per tutta la vita reale l’arte del gioco con la completa serietà del bambino – che la paura non ce l’ha –, e ci consegnerà il suo idealtipo Huckleberry Finn, “l’icona per eccellenza dell’arte di non avere niente” (p.41), perfetta incarnazione di Eros nella descrizione di Platone.

 

Da bambini si esprime nel gioco l’arte di non avere niente, poi si cresce e il viaggio diventa la sua concretizzazione. Sono i viaggi alla ricerca dell’Apeiron, l’indefinito di Anassimandro “dove ogni cosa è indistinta e in pace” (p.81). Quello di Arthur Riambaud, l’adolescente estremo che attua il coraggio di lasciare tutto per perdersi nell’indefinito e lì trovarsi. Di Paul Gauguin, uno che fa l’agente di cambio con grande successo a Parigi e che decide di staccarsi dalla sua vita, famiglia e figli, e andare verso un mondo altro, e dipingerlo. O di Marcel Proust che chiude i battenti sul mondo per aprire l’infinito scenario interiore in cui trovare compimento. O il viaggio Into the Wild, titolo del film che lo racconta, di Christopher McCandless, un ragazzo che dona i suoi 24.000 dollari di risparmi a una Ong e va verso l’indefinito. Sono tutti Gregor Samsa, imprigionati in un loro esoscheletro che a un certo punto si rivela insopportabile. Perché, dice La Porta, “L’unica via possibile per tornare ad avere un quadro assoluto e indefinito è spogliarsi di ogni definizione, inventando un nuovo linguaggio capace di fondere insieme gli opposti, liberandosi di ogni forma di pensiero razionale.” (p. 79) 

 

C’è un lieve sentore di New Age in queste pagine, le complessità della realtà sembra quasi che a volte si possano anche non vedere. Ma l’autore (che si occupa di economia) ha ben saldi i confini della questione: “Per l’uomo è normale accumulare oggetti, costruire case, selezionare gli affetti, innamorarsi e scegliere una compagna” (p. 93). E però è altrettanto normale che a un certo punto provi disagio, si svegli e senta addosso la fisicità estranea dello scarafaggio che si è costruito addosso.

Forse l’arte di non avere niente è proprio la tensione, più che a sbarazzarsi degli averi, a pensare altro, a immaginare dimensioni di vita distanti dal  mero “possedere”, per orientarsi via via, per discernere di volta in volta tra che cosa sia un mero avere accessorio e che cosa diventi un nostro proprio valore. E ammirare chi è stato in grado di praticare in modo assoluto l’arte di non avere niente “ci indica una via per coltivarla, che non sia un algoritmo, ma un’euristica” (p. 116), dice La Porta. Quel filo della remota utopia “hippy”, di questi tempi, non pare inutile. Sembra quasi di parlare della distanza tra il samsara (le tribolazioni in cui viviamo) e il nirvana (la beatitudine della liberazione) e di ciò che diceva l’antico saggio indiano per cui “distinguere fra samsara e nirvana significa essere ancora nel samsara. Non distinguere più significa essere nel nirvana” (con questo Emmanuel Carrère concludeva il suo Regno, libro a suo modo non completamente avulso da questo di cui parliamo). 

 

“Io… sono arrivato al punto di poter dormire nudo per terra e divorare l’erba. Dio conceda a tutti una vita simile. Non ho bisogno di nulla e non temo nessuno, e a mio parere non c’è uomo più ricco e libero di me”. Ecco il nirvana dell’arte di non avere niente. È Anton Cechov, Al confino, citato da Solženicyn in Arcipelago Gulag. La Porta mostra come anche lì, nella peggiore delle condizioni umane, c’è chi ha saputo trovare un frammento di intelligenza per sopravvivere, per lavorare in funzione di sé e degli altri. 

L’arte di non avere niente “è praticata principalmente da chi non ha alcuna visibilità, da chi in ogni parte del mondo spende quel poco che possiede per seguire le proprie idee” (p. 167), gli anonimi gestori del forno Casita del Sol di Cordoba che insegnano agli adolescenti sbandati della favela a fare il pane, in Argentina, o in Brasile, in Colombia. La Porta invita a vedere e a mettere a fuoco quegli sconosciuti, volontari che rinunciano ai loro averi, che si dedicano ai ragazzini perduti nella periferia di Catania, insegnando loro il judo e la giocoleria. Gli artisti del non avere niente che si fanno carico dell’altro, a Napoli, a Roma o a Istanbul o a Kingshasa, che con coraggio hanno oltrepassato la paura di perdere le “proprietà” recuperando civiltà. Persone che hanno realizzato il passaggio dal distacco dalle “cose” a un nuovo orientamento di sé, un salto dalle superfici degli “averi” alle profondità dell’eticità. Una melodia che ne ricorda altre, più o meno laiche, più o meno religiose.   

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La vita è altrove
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La lampada Falkland di Bruno Munari

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Era reduce da uno dei suoi frequenti viaggi in Giappone, Bruno Munari (1907-1998), innamorato com’era del minimalismo zen espresso dalla cultura di quel paese, quando, nel 1964, ricevette da Bruno Danese la commissione del progetto di una lampada. Gli si chiedeva che fosse innovativa sia dal punto di vista della forma che da quello dei materiali, senza che tuttavia risultasse troppo costosa. Gli si chiedeva, insomma, che fosse un oggetto “alla Munari”, dotato di tutti i requisiti che l’artista milanese (o sarebbe meglio dire il designer? Oppure l'operatore visivo, come lui stesso preferiva definirsi? Sul tema si legga qui il saggio di Marco Belpoliti) riteneva indispensabili per un buon progetto. Doveva quindi essere semplice, efficiente, caratterizzata da un minimo ingombro per lo stoccaggio e da una massima resa formale, ma soprattutto, doveva diffondere una ‘bella luce’. Gli era anche richiesto che fosse lavabile e facile da montare. A quel tempo, in commercio, con caratteristiche simili esistevano soltanto le lampade giapponesi in carta di riso, o più semplicemente di carta. Ma erano troppo fragili, assorbivano molta luce, ingiallivano, non erano lavabili e, soprattutto, si rompevano con estrema facilità. Per di più non si poteva certo dire che fossero economiche. A buon mercato in patria, una volta approdate in Europa, raggiungevano invece costi ragguardevoli.

 

Munari, con la perspicacia e la curiosità che gli erano precipue, iniziò subito ad interrogarsi su quale potesse essere il materiale adatto per rispondere alle caratteristiche che gli erano state richieste. Egli stesso narra di avere immediatamente pensato alla filanca e di essersi perciò recato a visitare alcune fabbriche di maglieria e di calzetteria dove si producevano tubolari di maglia elastica, con l’intento di sperimentare le forme che ne potevano derivare, oltre che per studiarne il comportamento, soprattutto la sua permeabilità alla luce e la sua resistenza al calore in rapporto anche all'eventuale ingiallimento delle fibre. L’economicità era ovviamente implicita nella scelta della filanca medesima, un tessuto sintetico prodotto industrialmente a bassissimo costo. 

Alla fine decise di avvalersi di una fabbrica di calze da donna, di collant: una scelta davvero inusuale per costruire una lampada. Così ha dichiarato lui stesso: 

«Un giorno sono andato in una fabbrica di maglieria per vedere se mi potevano fare una lampada. Noi non facciamo lampade, mi risposero. E io: vedrete che le farete.»

 

Di lì a poco è nata la Falkland. Si veda qui il video in cui Bruno Munari spiega la genesi del progetto di questa lampada in una lezione da lui tenuta allo IUAV di Venezia il 7 marzo 1992.

 

Bruno Munari, lampada Falkland. In alto: particolari costruttivi. In basso: varie fasi del ripiegamento e dell’imballaggio, con fotografie originali del packaging.


Si tratta di una lampada a sospensione che, appesa, raggiunge un metro e sessanta centimetri di altezza, mentre richiusa ne occupa due o tre al massimo, così da poter essere riposta nella confezione (vedi foto), anch’essa un insuperato capolavoro di packaging. Il corpo della lampada è ottenuto da un tubolare di filanca per calze da donna di colore bianco, del diametro di tredici pollici (circa 33 cm.). A distanze prestabilite, il tubolare viene allargato tramite l’introduzione di cerchi in tondino di metallo (con una sezione di mm. 5) di diametri differenti. È grazie a questa operazione che trae origine, una volta che la lampada è appesa al soffitto, la sua tipica forma allungata analoga a quella delle canne di bambù. Nell’interspazio di tessuto teso tra un tondino e l’altro, infatti, si generano delle curve naturali che ricordano quelle presenti nei fusti di quella pianta esotica. Un’unica lampadina allocata in un riflettore di alluminio posto nella parte superiore della lampada emette una luce molto morbida e gradevole, perché diffusa dalla particolare texture del tessuto. 

 

Nel volume Da cosa nasce cosa. Appunti per una metodologia progettuale, del 1981, a proposito della lampada Falkland, Munari ha sottolineato le prerogative della fibra sintetica da lui usata, la sua estrema leggerezza, ad esempio, e la sua elasticità che ne consente la dilatazione nei punti in cui sono inseriti gli anelli metallici. La forma della lampada, poi, può essere definita una forma spontanea, simile a quelle che si generano in natura, perché non è frutto del disegno del progettista, ma trae origine dal suo essere sottoposta alla forza di gravità, una volta che viene appesa al soffitto. Leggerezza, elasticità, forza di gravità sono, secondo Munari, i veri designer della Falkland, perché è dalla sinergia fra questi tre elementi, tra loro strettamente interconnessi, che scaturisce la forma finale della lampada, esattamente come avviene in natura per le gocce d’acqua, ad esempio, o per sagome ben più complesse, come quelle della mantide religiosa, frutto sempre delle leggi di ‘economia costruttiva’. In quello stesso libro, poi, egli sostiene quanto sia fondamentale per un designer studiare le forme spontanee della natura, da cui desumere la conoscenza di un impiego corretto dei materiali, senza arbitrarie forzature, esaltandone invece le intrinseche potenzialità (come ha fatto lui, proprio nel caso della Falkland, con la leggerezza e l’elasticità della filanca). 

«Pare che una cosa esatta sia anche bella» ci ricorda da quelle pagine l’artista-designer. E una goccia d’acqua è davvero esattamente perfetta ed è anche molto bella, così come lo è una mantide religiosa.

 

Bruno Munari, schizzo di progetto per lampada Falkland, 1964 (ph. Roberto Marossi), Fondazione Jacqueline Vodoz e Bruno Danese.


Ma quale significato aveva la richiesta avanzata a Munari da Danese di una lampada “alla Munari?” A spiegarlo è lo stesso Munari due anni dopo, quando, illustrando il proprio metodo creativo, in Arte come Mestiere, scrive di come sia necessario per il designer progettare senza alcun preconcetto stilistico o formale, avendo come propria guida soltanto la naturalezza nella creazione delle cose, al fine di ottenere un prodotto essenziale. E per fare ciò, egli sostiene, è necessario che per ogni tipo di oggetto il designer utilizzi le materie più adatte, impiegandole nelle dimensioni e negli spessori più confacenti, al fine di ridurre al minimo i tempi di lavorazione richiesti dal successivo processo di produzione industriale. Secondo quello che può essere definito il ‘paradigma munariano’, poi, il designer deve cercare di raggruppare il maggior numero di funzioni possibile in un solo elemento, impiegando invece il minor numero di materiali, senza andare alla ricerca di finiture troppo particolari e soprattutto risolvendo le giunzioni fra le parti componenti con la massima semplicità. Il progettista deve anche inglobare nello stampo eventuali scritte (il logo, la data o altro), ovviamente qualora sia possibile, come nel caso dei metalli o dei materiali plastici. Da ultimo gli suggerisce di risolvere già in fase progettuale il problema dell’ingombro del prodotto finito, sia per ottimizzarne lo stoccaggio in azienda, sia ai fini della logistica, ovvero del suo trasferimento prima al negozio che lo venderà e quindi presso chi lo acquisterà. Perciò consiglia di prevederne la ripiegabilità o magari la smontabilità, avvalendosi, laddove possibile, del contributo dalla forza di gravità, perché «un oggetto appeso costa meno di uno appoggiato.»

 

 

Bruno Munari, Concavo-Convesso; lampada Falkland.


Osservando la lampada Falkland poi, non si può fare a meno di notare come in essa le forme concave si alternino ad altre se pur brevemente convesse. Parrebbe che Munari abbia voluto riprendere in questo suo lavoro un tema su cui aveva lungamente meditato nella stagione del MAC (Movimento Arte Concreta), quando aveva dato vita ad un progetto intitolato proprio Concavo-Convesso. Vi attese dal 1937 fino al 1949, quando ne espose gli ultimi esiti a Milano, alla famosa Galleria Il Naviglio, dove, di lì a poco (1949/1951) sarebbe nato lo Spazialismo di Lucio Fontana. Si trattava di oggetti scultorei sospesi che ricordavano una nuvola, ottenuti da una rete metallica dalla texture sottile, acquistabile in ferramenta, e quindi tagliata in forma quadrata che, flessa e torta alla maniera del nastro di Moebius, permetteva alla superficie che prima era esterna, trasformatasi in volume, di divenire interna. Sospesi al soffitto, come i Mobiles di Calder, e illuminati da luci puntiformi, questi oggetti proiettavano sulle pareti della stanza ombre generatrici di trame astratte, in continua mutazione. 

 

Pure questi oggetti scultorei erano connotati dal ‘paradigma munariano’: economicità, riproducibilità, trasportabilità, topologia. Le opere erano infatti realizzate a costi contenuti, erano riproducibili in serie, ripiegabili per garantirne un facile packaging e la loro forma faceva riferimento alle geometrie non euclidee.

Già allora in Concavo-Convesso, come successivamente nella lampada progettata per Danese, è il materiale – là una rete industriale, qui il tubolare di filanca, esso pure industriale – a costituire per l’artista/designer il vero tramite creativo per dare vita alla mutazione della figura che, fattasi forma, trasla dal piano allo spazio, trasformandosi da superficie che era in volume, in oggetto plastico.

A differenza però dei mobiles Concavo-Convesso che erano illuminati dall’esterno, la lampada Falklandè addirittura essa stessa una forma sospesa generatrice di luce, frutto di un autentico colpo di genio, quale soltanto una mente leonardesca come quella di Bruno Munari poteva avere.

 

Esposta nei principali musei del mondo, è tra le icone del design più amate dal grande pubblico, così come lo è il suo autore.

 

Curiosità: Il nome Falkland le deriva dalla scelta inizialmente operata da Bruno Danese di chiamare con il nome di isole tutti gli oggetti del brand. In proposito, nel 1958 Mari aveva già creato Bali, una lampada da tavolo, e nel 1960 la ciotola Maldive.

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Concavo-Convesso
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Stile Olivetti

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Non si smette di parlare di Olivetti. Libri, mostre, le palinodie di Carlo De Benedetti che non si rassegna a passare alla storia come il cattivo che ha cancellato quello che oggi appare un sogno: un modello di impresa che pratica la responsabilità sociale, che inventa uno stile italiano diffuso in tutto il mondo, che innova, con un po’ di fortuna, la tecnologia delle macchine da ufficio e approda all’elettronica. Continuano anche a circolare leggende, più volte smentite, sulla sua fine, ma è bene piuttosto concentrarsi sui libri usciti negli ultimi mesi. In particolare quelli di Elena Tinacci, Mia memore et devota gratitudine. Carlo Scarpa e Olivetti, 1956-1978 (Edizioni di Comunità) e di Caterina Toschi, L’idioma Olivetti 1952-1979 (NYU Florence-Quodlibet). Entrambi i libri raccontano i tre decenni in cui si raggiunge l’apogeo dell’azienda di Ivrea (Adriano Olivetti muore nel 1960) e il suo lento declino, pieno però di momenti e di occasioni memorabili. Il cuore dei due libri tocca la creazione di uno ‘Stile Olivetti’, un’estetica della modernità che non smarrisce il filo della tradizione.

 

 

La Tinacci, ricostruendo il rapporto tra Olivetti e Carlo Scarpa, mette in luce il fitto reticolo di iniziative che Olivetti dispose dopo la Seconda guerra mondiale: un certo numero di riviste correlate tra loro (“Comunità”, “SeleArte”, “Metron”, “Zodiac”, “Urbanistica”) nella battaglia per proporre i migliori casi dell’architettura del Movimento Moderno, la cultura urbanistica che si stava diffondendo nell’Europa della ricostruzione (gli esempi anglosassoni, scandinavi, olandesi) e l’arte contemporanea internazionale. Questa cultura del nuovo era proposta da un gruppo di uomini, spesso usciti dalle delusioni del partito d’Azione (Carlo Ludovico Ragghianti, Licisco Magagnato, Giuseppe Mazzariol, Renzo Zorzi, poi dirigente e infine “custode” della memoria olivettiana), in continua dialettica con Bruno Zevi e Giulio Carlo Argan. Sottotraccia la lezione estetica di Sergio Bettini che aggiorna i canoni crociani con la fenomenologia e lo strutturalismo. Gli esempi migliori di questa cultura si rintracciano nei nuovi allestimenti museali di Carlo Scarpa (Museo di Castelvecchio a Verona, Palazzo Abatellis a Palermo), nel PAC milanese di Ignazio Gardella, nei musei genovesi di Franco Albini. In quei casi il rapporto era con soprintendenze illuminate e, spesso, dal pugno di ferro.  La Tinacci mostra la difficoltà a imporre la figura di Scarpa, oggi considerato uno dei massimi interpreti del Novecento, come architetto. Venne considerato dapprima un artista/poeta, poi un allestitore, infine un grande artigiano.

 

 

Il battage critico gli fece vincere il Premio Olivetti nel 1956, da cui scaturì la commessa del Negozio Olivetti di Venezia, che poi era un “biglietto da visita”, uno showroom, che l’azienda di Ivrea apriva al mondo. Difficile dire se il risultato sia più “scarpiano” (uso dei materiali tradizionali e locali, disposizione degli spazi) o “olivettiano” (la continuità tra esterno e interno, l’uso di opere d’arte, il messaggio implicito di una cultura aziendale). Certo un capolavoro dell’architettura del Novecento. Il rapporto di Scarpa con l’azienda d’Ivrea prosegue con l’allestimento della mostra Frescoes from Firenze, voluta dalla Olivetti dopo l’alluvione del 1966 e primo caso di sponsorship culturale, curata da Scarpa nella tappa londinese presso la Hayward Collection.

 

 

Caterina Toschi analizza invece l’idioma Olivetti, così lo chiama, per episodi: la mitica mostra al MOMA del 1952, luogo di battesimo dell’Italian Style, con l’allestimento di Leo Lionni a confronto con le grafiche di Giovanni Pintori. Poi fa luce, ed è la prima volta, sull’esperienza del CISV (Centro Istruzione Specializzazione Vendite) che Adriano Olivetti volle insediare in due ville medicee, alle porte di Firenze, di proprietà di Lord Acton. Formare i venditori per battere i quartieri delle città oppure per farli lavorare nei Negozi Olivetti sparsi per l’Italia, è un’altra novità della cultura aziendale olivettiana. “La prima scuola di mercatisca” la definì Ugo Galassi, l’artefice della diffusione capillare della macchina per scrivere nelle case della nascente middle class italiana.

 

 

La seconda parte del libro è dedicata ai negozi Olivetti (la prima azienda globale italiana) ad opera di grandi architetti: BBPR a New York e Madrid, Albini e Franca Helg a Parigi, vari allistimenti di Gae Aulenti. In quegli anni il rappresentante della Olivetti, specie dove c’erano anche luoghi di produzione, aveva il peso di un ambasciatore. Dopo la morte di Adriano Olivetti, l’azienda ha ormai assunto consapevolezza di aver raggiunto uno stile e lo promuove con mostre in giro per il mondo e l’abilità, in particolare di Zorzi, è di chiamare architetti/allestitori come la Aulenti e Sottsass che, all’interno di una consolidata cultura d’impresa, danno il meglio di sé. Quello che più resta negli occhi di questo volume è la straordinaria qualità iconografica con cui la Olivetti documentava il proprio lavoro: Ugo Mulas, Aldo Ballo, Paolo Monti e un giovane Gabriele Basilico sono alcuni dei nomi dei fotografi utilizzati dall’azienda d’Ivrea. Ogni volta che incontro Gianni Berengo Gardin mi dice che sta ancora aspettando una nuova Olivetti.

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Estetica della modernità
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Imperfetto passato

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C’è una crudele ironia nella coincidenza tra il mezzo secolo dal Sessantotto e un’attualità che si colloca al nadir della tensione alla palingenesi personale e collettiva, della radicale espansione della sfera delle libertà e delle possibilità che dell’annus mirabilis fissarono la costellazione simbolica e politica. Risentimento, insicurezza, paura: sono questi all’opposto i segni della nostra attualità, con le sue forme intrattabili di diseguaglianza ed esclusione, i conflitti interminabili, il vuoto di alternative, di fronte ai quali le soluzioni bugiarde dei populismi, con la loro subdola e in apparenza irresistibile manipolazione del discorso pubblico, si presentano come paradossale risposta alla crisi dell’ordine neoliberista e al suo mantra There is no alternative.

 

Il presente insomma sembra davvero offrire davvero poche giustificazioni a una commemorazione irrimediabilmente sfasata rispetto alle urgenze che la incalzano. Proprio per questo, anziché giudicare con la fosca e disillusa misura dell’attualità le idee di un anno che si è venuto sempre più trasformando, mano a mano che i decenni si accumulavano, in un evento sbiadito o in un’eredità imbarazzante, potremmo chiedere invece al Sessantotto, liberato dalla zavorra del senno-di-poi, di auscultare il nostro presente, di sondarne le concrezioni avvelenate, di parlarci nella sua lingua. Come guarderebbero i giovani in rivolta del “maggio” un mondo che ha realizzato alcune delle loro aspirazioni più visionarie e rovesciato in una contraddittoria distopia quasi tutte le altre?

 

Potrebbero magari aiutarci a rendere meno patetico il residuo attaccamento al mito di un Sessantotto ideale eterno, ad esempio, o ad attutire il senso di colpa per il suo fallimento. Oppure a dare ragione a chi, come Tony Judt nel suo ultimo, accorato libro (Ill Fares the Land, Penguin 2010; in italiano, Guasto è il mondo, Laterza 2011), rivendicava lo spazio comune come luogo di una politica orientata alla coesione della comunità, anziché un insieme di singole giustecause, totalizzanti e astratte, con cui la sinistra occidentale ha mimetizzato la sua sostanziale adesione  al sistema neoliberista. O finalmente smentire il sospetto che dietro gli slogan radicali, lo slancio liberatorio, la retorica della rivolta, si celassero in realtà – come sostennero Luc Ferry e Alain Renaut nel loro saggio del 1985 Il Sessantotto pensiero (Rizzoli 1987; in originale, La pensée 68: essai sur l'anti-humanisme contemporain, Gallimard 1985), e dicono oggi i loro tardi, inconfessati epigoni– i valori dell’individualismo edonista, una infantile richiesta di godimento in cui incubavano le strutture ludiche e inesorabilmente efficienti del tardocapitalismo.

 

Parigi, maggio 1968

 

Ho il sospetto tuttavia che non ci direbbero nulla di tutto questo. Immobilizzati nell’istantanea di quel momento irripetibile, ci ricorderebbero invece qualcosa di diverso, qualcosa che Sergio Benvenuto, nel suo recente libro Godere senza limiti.Un italiano nel maggio 68 a Parigi (Mimesis, pp. 192, € 18), considera l’esigenza originaria della sua generazione: la richiesta travolgente di una totale autenticità, di una verità irriducibile alla norma sociale, alle sue gerarchie, indifferente persino alla sua concreta attuabilità politica. Una forma di parrhesia, per usare il termine greco richiamato da Benvenuto, cioè una tentazione di dire sempre tutta la verità e anzi troppa verità, un atteggiamento che all’autore disincantato di oggi appare ingenuo e parziale, ma che mi sembra invece definire bene, dietro il vezzo ironico, la sua stessa posizione: Benvenuto, psicoanalista di fama, saggista e acuto osservatore della società contemporanea, non sarebbe mai diventato se stesso senza aver condiviso, vissuto, quell’esigenza. Da cui deriva anche il “tono” generale del libro, situato in un punto equidistante tra il romanzo di formazione – o l’autobiografia intellettuale – e il saggio, all’intersezione tra desiderio di raccontare e necessità di distacco, di ricomposizione tra passione e ragione. Un tono che permette all’autore di intersecare abilmente eventi intimi e collettivi, sincronia e tempo retrospettivo, sguardo “locale” e d’insieme, sino a comporre un racconto una delle cui finalità non dichiarate è comporre un bilancio obiettivo dell’eredità del Sessantotto stesso. 

 

Alla parrhesia in quanto discorso veritiero Michel Foucault avrebbe dedicato nel 1983 una serie di lezioni in inglese, raccolte nel libro Fearless Speech (Semiotext(e), 2001; in italiano, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, 2005). La parrhesia, scrive Foucault, è un’attività in cui chi parla “ha uno specifico rapporto con la verità attraverso la franchezza, una certa relazione con la propria vita attraverso il pericolo, un certo tipo di relazione con se stesso e con gli altri attraverso la critica (autocritica o critica di altre persone), e uno specifico rapporto con la legge morale attraverso la libertà e il dovere. Più precisamente, la parrhesiaè un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità, e rischia la propria vita perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio”. Franchezza, critica, pericolo, dovere, verità. È questa intima fusione della sfera individuale e di quella politica, in cui parola e azione si fondono e sovrappongono e accettano il rischio implicito in tutto questo, ciò cui Benvenuto attribuisce anzitutto la forza dirompente del Sessantotto, la capacità cioè di turbare l’ordine in ogni sua piega: del discorso, del desiderio, della gerarchia sociale.

 

Si possono mettere direttamente a confronto le pagine che Benvenuto dedica ai fatti del maggio parigino, vissuti in prima persona, sia pure da una posizione defilata, e le osservazione contenute in uno dei testi più lucidi e tempestivi su quegli stessi eventi, il libro di Edgar Morin, Claude Lefort e Jean-Marc Coudray (alias Cornélius Castoriadis), Mai 1968: La Brèche. Premières réflexions sur les événements, pubblicato nell’estate del ’68. Se per il diciannovenne italiano quello del Quartier Latin è anzitutto la scena di una duplice rivelazione – quella di un’utopia realizzata e di un coming-of-age personale – per i tre autori francesi, il maggio è in primo luogo una rivolta svoltasi essenzialmente sul piano simbolico, a causa del rifiuto decisivo dell’azione organizzata e quindi dell’impossibilità di trasformarsi, al di là di proclami e dimostrazioni, in una autentica rivoluzione, in una prise de pouvoir. Ma di fronte a questo apparente scacco, Castoriadis, Lefort e Morin, con accenti diversi, sottolineano nel libro da un lato la crisi del classico modello marxista della rivoluzione come prodotto inevitabile della crisi del capitalismo e dell’ascesa del proletariato industriale, inservibile nell’epoca postfordista e consumista e del “benessere” di massa, e dall’altro la novità e il potenziale di creatività sociale del movimento studentesco, la cui forza di desacralizzazione dell’autorità apriva orizzonti non più racchiusi nel ciclo fatale rivoluzione-controrivoluzione che dal 1789 aveva caratterizzato la storia europea. Il maggio ’68 appare nella loro lettura una rivendicazione di autonomia di fronte a meccanismi oppressivi e alienanti diffusi in tutti i settori sociali, una “vibrazione” che aggirando le burocrazie della sinistra ufficiale – il Partito comunista e i sindacati – e la stessa intellighenzia, fa emergere un soggetto nuovo, una classe giovanile che si ribella al paternalismo tradizionale e alle nuove forme tecnocratiche del potere. Come scrive Morin, il carattere antico e nuovo del maggio ’68 “trova la sua radice nella rivolta arcaica – cioè primordiale fondamentale – che apre una breccia profonda nella diga che reprime e smorza le energie umane per trasformarle in lavoro e obbedienza”. Il Sessantotto è stato in grado di mettere in moto una forma di rivoluzione interamente culturale, che andava al di là cioè della politica intesa nel senso tradizionale del termine, perseguendo una trasformazione radicale e dagli effetti duraturi della sessualità, dell’educazione, della cultura e della vita quotidiana.

 

Nel libro, ripubblicato in Francia con nuovi saggi nel 1988, le posizioni dei tre autori appaiono strettamente connesse al loro retroterra filosofico e politico, che nel caso di Castoriadis e Lefort è quello di una rivista famosa, “Socialisme ou Barbarie”, di cui erano stati fondatori e animatori dal 1949, che pur avendo cessato le pubblicazioni nel ’67 esercitò grande influenza sulle idee del maggio francese. Le loro posizioni antidogmatiche – centrate sulla critica alla burocrazia e all’immobilismo dei paesi del “socialismo reale”, alle forme tradizionali di organizzazione politica di stampo leninista, alla “razionalità” produttiva borghese, e rivolto invece a una umanizzazione dei rapporti di lavoro e sociali in generale, all’autonomia e all’autodeterminazione – furono infatti, ancorché sotterranee, tra le principali fonti di ispirazione del movimento studentesco. Tanto più in questo senso appare poco comprensibile la decisione di riproporre ora in italiano, pur conservando il titolo dell’edizione originale (Maggio ’68. La breccia, a cura di Francesco Bellusci, Raffaello Cortina Editore, pp. 128, €11), i contributi del solo Morin, tralasciando quelli Castoriadis e Lefort, sia quelli originali (già tradotti in italiano nello stesso 1968 col titolo La Comune di Parigi del maggio ’68 da Il Saggiatore), che quelli aggiunti nella riedizione del 1988. Una scelta che sottrae al libro il suo valore di documento storico e la sua potenza di testimonianza di un sodalizio intellettuale tra i più interessanti della scena culturale e politica di quel decennio.

 

Daniel Cohn-Bendit parla agli studenti di fronte alla Sorbonne, Parigi, maggio 1968

 

Ma per tornare alla nostra mossa iniziale, cos’altro potrebbero dire di noi i giovani del Sessantotto? Rimarrebbero stupiti probabilmente dal bisogno, dalla retorica, dal culto, nell’epoca attuale, del principio di realtà, una realtà ristretta, del tutto identificata nella forma di vita capitalista e che proprio per questo si proclama naturale, originaria, indiscutibile, nelle sue manifestazioni concrete, nei suoi simboli, nella sua temporalità: nessuno spazio fuori, nessun attrito, nessuna mancanza, e nessuna eccedenza anche. Ma realizzerebbero anche che ciò li riguarda. Per la loro generazione – ed è questo l’altro asse concettuale del libro di Benvenuto – è stato infatti determinante il riconoscimento di una preminenza del significante, un concetto che dalle sue origini nella linguistica si è poi ramificato nella teoria estetica, letteraria e psicoanalitica, in particolare nell’insegnamento di Lacan. Il significante è per Benvenuto il concetto-chiave per comprendere l’apparente contraddizione di una rivolta dei giovani nei paesi Occidentali che toccavano allora l’apice della straordinaria crescita economica seguita al 1945. Rivoluzione, avanguardia, guerriglia, ecc.: i significanti agiscono nel Sessantotto come catalizzatori di una trasformazione che è insieme soggettiva e culturale. Ne sono tutti esempi la materialità, l’evidenza primaria del corpo e della materia nelle esperienze artistiche della seconda metà dei Sessanta, il corpo e la voce degli attori nel teatro sperimentale, da Brook e Grotowsky alla scena italiana, la decostruzione dell’autorità della critica e della filosofia in Derrida. Ma ne sono spie anche il riuso dell’iconografia e della retorica rivoluzionaria del movimento comunista mondiale, da Cuba alla Cina al Vietnam, private della loro effettualità, e trasformate in token identitari.  

 

Quella della prevalenza del significante è un’idea che affonda le sue radici nell’avanguardia modernista della prima metà del XX secolo, nella quale la destrutturazione dei linguaggi artistici – tramite il montaggio, l’astrazione, l’attivazione dell’inconscio, le componenti “primitive”, informi, infantili – era un passo indispensabile per una integrale ristrutturazione della sensibilità e al tempo stesso per aprire una nuova fase della civiltà umana. Ma il “ritorno” dell’avanguardia – e questa consapevolezza emerge lungo tutto il libro di Benvenuto – non può che essere commisurato alla nuova dimensione sociale ed economica del capitalismo tardo, all’emersione di un nuovo soggetto, i “giovani” di cui parlava Morin nello stesso 1968, in definitiva alle condizioni generali di una cultura totalmente secolarizzata nel momento cruciale della transizione da un’epoca dell’autorità e del limite a una della permissività e del godimento interminabile. Quella annunciata dal movimento studentesco, nel Sessantotto e per buona parte del decennio seguente, è dunque una “avanguardia di massa”, in cui gli effetti estetici della scomposizione e ricomposizione dei linguaggi, l’accento sulla letteralità dell’esperienza, hanno un valore affatto diverso a seconda che li si consideri sul piano degli ideali o dei comportamenti condivisi, con l’affermazione di un principio dionisiaco che se ha alle spalle gli insegnamenti di Nietzsche, Artaud e Bataille, come nota a ragione Benvenuto, si manifesta in forme affermative, semplificate, di consumo immediato: significanti puri, depurati da ogni complicazione interna. L’estetizzazione della vita, la trasgressione, il libertinismo, l’anticonformismo – tutte vecchie armi dell’avanguardia nella sua guerra alla morale e all’arte borghese –, invertono il proprio valore, diventano strumenti di evasione e deresponsabilizzazione laddove erano stati mezzi per conquistare una più piena e profonda umanità.

 

Henri Cartier-Bresson, Senza titolo, Parigi, maggio 1968

 

È in questo senso davvero il Sessantotto il momento in cui inizia a profilarsi in modo pienamente visibile quel fenomeno di secolarizzazione estrema che  Guido Mazzoni chiama ne I destini generali (Laterza, 2015) “la fine del paradigma apocalittico”, ovvero la fine dell’opposizione tra cultura alta e bassa, tra autenticità e alienazione, e quel surrealismo di massa di cui Daniele Balicco, nel suo recente volume di saggi Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e capitalismo (Quodlibet 2018, pp. 176, € 18), rintraccia l’origine nell’analisi proposta da Franco Fortini nel 1977 per definire i contorni della trasformazione della cultura dell’avanguardia più radicale e ambiziosa del Novecento in un serie di tecniche dell’industria culturale. Separati dalla loro prospettiva cosmico-storica dalla forza di appropriazione della cultura di massa e dalla trasformazione del capitalismo nell’era dell’automazione, le forme, le tecniche, i significanti surrealisti, con la loro capacità di trattenere il casuale, il basso, l’informe, il “male”, sono ormai totalmente svuotati e messi a disposizione della pura riproduzione del mondo di cui si erano voluti agenti di metamorfosi.

 

Il “realismo capitalista”, come lo ha chiamato Mark Fisher in un libro del 2009 da poco tradotto in italiano (Capitalist Realism, Zero Books, 2009; Realismo capitalista, Nero Edizioni, 2018, pp. 154, € 13), pratica in effetti una distanza ironica da quelle che sono ormai considerate illusioni ideologiche del passato, trasformando ciascuno in un consumatore-spettatore, in un “ultimo uomo” nietzschiano che ha visto e provato tutto, una creatura apatica senza passioni né impegni, incapace di sognare, e che cerca solo comodità, sicurezza e tolleranza reciproca. Niente più “passione per il reale”, insomma. Quella con cui oggi abbiamo a che fare, scrive ancora Fisher, non è tanto l’appropriazione di materiali che prima sembravano godere di un potenziale sovversivo, quanto la loropreincorporazione. Ovvero la programmazione e modellazione preventiva di desideri, aspirazioni, speranze, e la destituzione anticipata di ogni gesto di ribellione o contestazione che si vorrebbe nuovo, alternativo o indipendente ma che si presenta già, costitutivamente, come mero stile del mainstream.

 

C’è molto altro nel libro di Sergio Benvenuto sul Sessantotto: il racconto della giovinezza a Napoli, l’esperienza parigina e l’incontro con i grandi intellettuali dell’epoca, la vita quotidiana, il sesso, le letture, le amicizie, le droghe, i film, la politica. Ritratti e aneddoti sono resi in forma penetrante, emblematica, sono simpatetici senza essere complici. In effetti però il tratto che mi colpisce più in Godere senza limiti non è tanto la capacità, pure notevole, di rievocare esperienze o di proporne giudizi originali e molto spesso anticonvenzionali, ma quella che potrei chiamare una assoluta indiscrezione, una capacità di esporsi e di esporre allo stesso tempo il lato pubblico e quello privato, la motivazione interna, sincronica all’evento narrato, e quella retrospettiva, più obiettiva ma non necessariamente più rassicurante o tollerabile. Mettere a nudo le motivazioni reali dei comportamenti, superando, senza compiacimento, la soglia del pudore e della vergogna – capacità cui non è estranea evidentemente la pratica psicoanalitica dell’autore –, è in effetti il modo specifico con cui la narrazione di Benvenuto riesce a trasformarsi da anamnesi personale in interpretazione, dando alla dimensione memorialistica un’essenziale risonanza contemporanea.

 

Benvenuto, e noi con lui, sa che la speranza del movimento del Sessantotto di poter arrestare l’evoluzione della società capitalista verso la distopia adorniana di un “mondo amministrato” – in cui ogni differenza, ogni alternativa politica è annullata, i media saturano il mondo e ne ridefiniscono l’esperienza come spettacolo – va definitivamente archiviata come un’illusione. Ma sa anche – lo ha ricordato Edgar Morin in una recente intervista sulla rivista “Socio” (con cui la prefazione al volume italiano ha in comune alcune parti) – che se non ha trasformato il mondo, il Sessantotto è stato un momento simbolico di crisi di civiltà, in cui sono apparse aspirazioni profonde, antropologiche (più autonomia, più comunità, più fraternità), capaci di spalancare, di colpo, la sfera del possibile. È questa, allora come oggi, di fronte alle convulsioni della forma di vita neoliberista, all’orizzonte soffocante della menzogna reazionaria, la sua parte vivente, la sua parrhesia.

 

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Salvia, salvatrice!

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Non preserva dalla peste bubbonica, benché probabile protagonista del bouquet di «erbe odorifere» che alcuni fiorentini portavano sotto il naso per cercare scampo alla «pestifera mortalità» del 1348: «andavano attorno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare» (Decameron, Introduzione, 24). 

Certo è che della salvia Boccaccio fa materia di novella per la giornata degli amori infelici dove, per paradosso, è causa di morte:

 

Era in quella parte del giardino, dove Pasquino e la Simona andati se ne erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatosi insieme, e molto avendo ragionato d’una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino dal gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s’incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d’ogni cosa che sopr’essi rimasa fosse dopo l’aver mangiato.

E poi che così alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda, della qual prima diceva. Né guari di spazio perseguì ragionando, che s’incominciò tutto nel viso a cambiare, e appresso il cambiamento non istette guari che egli perdè la vista e la parola, e in brieve egli si morì. (Dec., IV, 7)

 

 

Medesima sorte tocca alla Simona, in vero un po’ stolta, che per scagionarsi dall’accusa d’aver avvelenato il compagno pur ella, davanti al giudice, si sfrega sui denti una foglia di salvia colta dal medesimo cespo. A render venefica la salvia – si scopre poi – era un rospo che l’aveva eletta ad abitazione («una botta di maravigliosa grandezza»). Per altro, Boccaccio dà qui conto dell’uso popolare di quest’erba quale dentifricio naturale. 

Insomma, in quel giardino medievale non s’era seguita la saggia regola degli orti dei semplici, dove alla salvia era riservato il settore centrale dell’herbularius, sempre affiancata alla ruta, antidoto al veleno di serpenti e rospi. Pur tuttavia, dal punto di vista della salvia, il nefasto caso di Pasquino e Simona riserva un finale felice con la riabilitazione della sua onomastica fama di erba salutifera (dal latino salvus). 

La reputazione di pianta sanatrice la salvia se l’è guadagnata fin dall’antichità: per i romani era una pianta sacra e ne codificarono la raccolta con un esclusivo rituale. La scuola salernitana (Regimen sanitatis Salernii) le dedica l’aforisma n. 60, in cui la domanda d’avvio documenta il prestigio di erba miracolosa che tutto può fronteggiare tranne la morte:

 

 

Caput LX. De salvia 

 

Cur moriatur homo, cui salvia crescit in horto?

Contra vim mortis non est medicamen in hortis.

Salvia confortat nervos, manuumque tremorem

tollit, et eius ope febris acuta fugit.

Salvia, castoreum, lavandula, primula veris,

nasturtius, athanasa: haec sanant paralytica membra.

Salvia salvatrix, naturae conciliatrix.

 

Perché muore l'uomo a cui cresce la salvia nell'orto?

Contro la forza della morte non c'è medicina negli orti.

La salvia rafforza i nervi, toglie il tremore delle

mani e per suo intervento la febbre alta se ne va.

La salvia, il castoreo, la lavandula, la primula odorosa,

il nasturzio e il tanaceto risanano le membra paralizzate.

Oh salvia salvatrice, armonizzatrice della natura!

 

 

La ricca collezione dei Royal Botanic Gardens di Kew testimonia come la salvia non vada relegata nell’orto per il mazzetto degli odori da usare in cucina: dalle umili pratensis e officinalis alle numerose cultivar disponibili presso i vivaisti, le salvie possono rappresentare una risorsa straordinaria per i nostri giardini. 

Specie le perenni, erbacee o arbustive, danno grandi soddisfazioni con poco impegno: facili da coltivare, belle e varie nelle foglie, fiori dalla lunga durata e in una gamma cromatica pressoché completa, molte aromatiche e utili, come la elegans dal sentore di ananas. In piena terra e in posizioni felici alcune varietà possono superare il metro d’altezza e far macchia tra lavande e cistus. 

 

 

La famiglia (appartiene alle Labiatae) è numerosissima, cinquecento almeno le specie: arduo perciò scegliere l’esemplare del cuore. Non può essere la splendens, finalmente in recessione nelle aiuole pubbliche bollata dall’anatema di Ippolito Pizzetti e di Vita Sackville-West (quest’ultima così ne scrisse: «per legge dovrebbe essere vietata a tutti coloro che non sanno farne un uso attentissimo»). Incantevole la nemorosa, dalle brattee rosso-viola sugli steli fino all’autunno; provocante nella generosa profusione di boccucce protese la gregii hotlips; elegante, slanciata l’azurea grandiflora dalle luminose infiorescenze color del cielo. Il gradino più alto del podio tuttavia per me lo tiene l’erbacea messicana leucantha: da settembre e per tutto l’autunno, le spighe col bianco abbinato al rosa, al porpora o al blu seguono sull’apice l’andamento sinuoso dei fusti dalle lunghe foglie appuntite e profumate. Un incanto che si può permettere solo un giardino dal clima temperato, meglio se l’inverno non porta più di 7-8 gradi sotto lo zero. 

Ma così tante e così diverse sono le salvie che si trova sempre quella che fa al caso proprio. E non dimenticate d’accompagnarla alla ruta scacciarospi!

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Salvus
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La vera parola del momento

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Ci si faccia caso, la parola del momento non è una delle tante gettate come petardi e mortaretti (in attesa magari di farsi bombe vere e proprie) che fanno tanto rumore e attirano l’attenzione. La parola del momento è parola, tema che si sta gonfiando con un uragano di parole. Non c’è nessuno che non abbia parole da dire e non c’è nessuno che non abbia da dire parole sulle parole. E le parole crescono sulle parole, in un contesto sempre più parolaio.

 

C’è chi dice parole cattive. Le dice e mentre le dice si guarda, compiaciuto. Mentre le dice, si ascolta soddisfatto. Non ci vuole molto a capire e del resto non nasconde di dirle anzitutto per vedere l’effetto che fanno: su se medesimo e sugli altri. Ma appunto non di nascosto. Apertamente. Guardarsi, ascoltarsi è un’attività sociale. Se non lo si fa sotto gli occhi di tutti, è come non farlo. Sembra narcisismo, ma non lo è. Del resto, bruttini e piuttosto avanti negli anni come complessivamente si è, chi avrebbe mai veramente il coraggio di specchiarsi? Ci si scorda sempre, quando si parla di narcisismo dilagante, che Narciso era carino. La circostanza non ebbe certamente scarso peso nella sua predilezione: magari ce ne fossero, di narcisi! Ci sarebbe perlomeno gente carina, in giro. E allora, sembra narcisismo, ma è esibizionismo. E si esibiscono laidezze destinate a un pubblico presso il quale dilaga un’evidente inclinazione per l’orrido, il disgustoso, il rivoltante: c’è chi ci grufola, c’è chi se ne indigna. Si può avere il sospetto che si somiglino più di quanto non credano? Con le parole cattive correnti, peraltro, il gioco smaccato (ma lo si può ancora chiamare gioco?) consiste nell’impersonare il Cecco del celebre quadretto popolare di “Mamma, Cecco mi tocca… Toccami, Cecco...”. Paiono strategie comunicative sopraffine. Come sempre in Italia, è soprattutto strapaese. E pour cause.

 

Così, le parole cattive sembrano spesso solo l’innesco della discussione sulle parole. Ma sono già, a ben vedere, meta-parole, parole su parole. La discussione sulle parole, in altre parole, comincia nel momento in cui le prime parole vengono proferite in quanto tali. Sono proferite perché se ne parli, delle parole. Sono d’altra parte palesemente meta-parole quasi tutte le parole non-cattive che così prendono origine. Oltre a tutte le non-cattive che reagiscono alle cattive, sono parole sulle parole anche le non-cattive che fanno l’esame delle cattive e delle non-cattive. 

Si tocca con ciò un tema delicatissimo, per la cosiddetta società intellettuale. Al di là del merito, al di là di cattiveria e no, come si sa, c’è sempre il metodo, quando si tratta di lingua. Almeno, c’è sempre per chi ancora pratica quei principî di ragionamento che per qualche secolo hanno innervato la critica, cioè il discernimento (forse non lo fanno più: cresce, di conseguenza, la necessità di testimonianze).

Quanto alla lingua, fino a qualche tempo fa, la scena pubblica intellettuale abbondava di grammatici. Se ne incontrava uno ad apertura di rete sociale, al primo girare di pagina di un quotidiano, a uno sguardo anche distratto alla tv. Il grammatico è rapidamente passato di moda, come c’era da attendersi. Adesso, senza che se ne declini esplicitamente la specialità (la parola sarebbe ostica), va per la maggiore il filologo. Nel quadro culturale millenario della nostra civiltà, si tratta dell’osservante (sì, dell’osservante) di quella disciplina cui sono (stati) affidati per secoli studio della storia della parola e sua correlata analisi. Della parola scritta, soprattutto, ma, dandosi il caso, di ogni altra.

 

Non c’è persona che concioni in pubblico, che prenda la penna in mano, che batta sopra una tastiera che in effetti non abbia frattanto disposto un suo personale banchettino filologico. Non essere presente con qualche riflessione sopra un’assortita congerie di parole mette a rischio, oggi, d’irrilevanza. I mercati dello spirito chiedono che si parli di parole e, si sa, sono i mercati a decidere. Così che è tutto un agitarsi, appunto, sulla piazza del mercato: “Parole, parole fresche e sviscerate sul momento...”, “Parole appena pescate...”, “Parole, parolacce, paroline… per tutti i gusti, per tutti i palati: avvicinatevi, c’è una parola che fa sicuramente al caso vostro”, “Signora, mi dica: come la vuole questa parola? Vuole che gliela sfiletti io o lo fa lei a casa?”, “Guardi, per i suoi ospiti. Se li vuole indignati, non può mettere sulla tavola niente di meglio: è una parola indecente, saranno indignatissimi. Dice che li vuole incarogniti? Allora le consiglio quest’altra: una parola buona, da fare incarognire anche un santo”.

 

La circostanza è paradossale, dalla prospettiva culturale. Culturale (va precisato, come si faceva una volta e adesso non usa più) non solo dalla prospettiva antropologica. Se c’è una disciplina severa e arcigna per metodi ed esercizio, è proprio la filologia. Non è difficile capire perché: la parola è materia tanto evanescente che solo un accertamento metodologico rigoroso può riuscire a darle il solido statuto di dato affidabile. Bisogna passare mesi nelle biblioteche, fare noiose ricerche, accertarsi dei contesti di ricorrenza. Leggerli, provare a capirli, situarli storicamente, ideologicamente, linguisticamente.

Da qualche decennio, nei luoghi deputati alla sua osservanza (sì, proprio osservanza), se c’è una disciplina che sta vivendo una crisi (quasi) mortale non solo di vocazioni, ma anche di prospettive, è proprio la filologia. Disciplina moderna, la filologia; nata quando si sognò di fare scienza di tutto. Persino della storia, persino delle parole. Oggi, come si sa, è tutto “narrazione”. Anche la scienza, se non è narrazione, non se la filano più nemmeno gli scienziati (o, almeno, i sedicenti tali).

La lentezza della filologia, la sua circospezione, la sua attitudine al dubbio, la sua (non sempre positiva) pedanteria l’hanno resa del resto veramente straniera alla temperie. Questa non è veloce. La velocità fu mito della modernità. Non lo è per nulla della putrefazione del moderno. Il moderno putrefatto è approssimativo: qualcuno ha detto liquido, appunto. 

 

Liquida: esattamente ciò che la filologia, per molti secoli, ha provato a non essere, ciò contro cui la filologia ha combattuto, tentando di rendere salda non solo la parola, ma anche la delicata parola sulla parola. L’ha fatto non sempre con probità, non sempre con intelligenza: esseri umani anch’essi, i filologi, come i medici, gli ingegneri, gli avvocati, i macellai. Per ciò che concerne la parola, la filologia è (stata) comunque il meno peggio a disposizione, per la nostra civiltà. Del resto, professione, non hobby. E anche coloro che esaltano l’attitudine dilettantesca, per quanto ne sappia chi scrive, a cena non si affidano a dilettanti. Frequentano invece tavole imbandite da (reputati) professionisti. E del relativo buon gusto pretendono di fare professione. Ma spesso sono solo parole.

 

Oggi, di tutto, si vuol fare mercato: al diavolo professione o scienza. Sulla pubblica piazza della parola, sulla parola in piazza, si pratica di conseguenza una filologia singolare, tanto più singolare perché costruita intorno a un criterio metodologico singolare. Quello che ottimizza la resa mercantile: massimo rendimento con il minimo sforzo. Si tratta della celebre libera associazione. Praticata senza limiti da coloro che una qualsivoglia nomea di intellettuali autorizza, la libera associazione è l’idiosincratica filologia del momento. “Ti dico una parola” o “Il tale ha detto una parola. Cosa ti fa pensare?”: e vai con le parole. Tanto più adatte allo smercio, quanto più evocative, vaghe, viscerali (se cattive) o sentimentali (se non-cattive).

Roba da non crederci. Roba da ammutolire, da restare senza parole.

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Italia lunare: gli anni sessanta e l’occulto

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Questo saggio denso e molto ricco racconta di un viaggio fatto in Italia. Ma non è la solita Italia del sole e del mare, del buon cibo, dei mandolini e della dolce vita. È invece un’Italia infestata da vampiri, da fantasmi, da indemoniati, piena di posseduti, di medium, ricca di trame occulte e di complotti tessuti nell’ombra. Tutto il contrario del luogo comune intorno al Bel Paese, dunque. 

L’arco temporale del racconto va sostanzialmente dalla fine degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta del secolo scorso.

L’autore intraprende questa ricognizione dell’“occultura” (termine reso celebre da Christopher Partridge) italica di fine secolo – ventesimo – consapevole che essa può rivelarsi come una cartina di tornasole delle tensioni e dei desideri di un paese in trasformazione.

Del resto anche all’epoca della Rivoluzione francese mesmeristi e magnetizzatori avevano avuto un ruolo non inferiore a quello esercitato dai teorici dell’Encyclopédie.

Il discorso relativo all’occulto è come un prisma che riflette e incorpora tensioni sociali e politiche di un paese e però le ricodifica al di fuori dei regimi discorsivi di provenienza. Insomma, studiando le figure dei vampiri di certi cosiddetti b-movie italiani o di certi romanzi e romanzacci a base di spettri e indemoniati, tipo “I libri dell’ossessione” dell’editore Gino Sansoni, si può capire meglio la società italiana di quegli anni, meglio di quanto non possano farlo saggi sociologici o storici.

Il percorso si articola in quattro parti.

 

La prima è dedicata specificatamente ai vampiri. Sono vampiri cha-cha-cha, sulla falsariga di una canzone di Bruno Martino, Dracula cha-cha-cha, uno dei successi estivi dell’anno 1959. Perché la voga vampirica italica data da quell’anno, che è quello in cui Cristopher Lee, il nuovo Dracula della Hammer film, viene inseguito dai paparazzi per le strade di Roma. E da quella fortunatissima pellicola nasce tutta una serie, perfino parodistica, di altri film, i cui registi sono Mario Bava, Anton Giulio Majano, Roberto Mauri, Camillo Mastrocinque e altri.

Ma chi è veramente il Vampiro? E perché un’arcaica leggenda balcanica esercita tanta presa sulla società dell’era atomica, ancorché nella sua variante peninsulare?

Il Vampiro è molto semplicemente l’Altro, anche in senso lacaniano. È la minaccia oscura che l’Oriente lancia verso l’Occidente modernizzato. È il Capitale, “lavoro morto che si ravviva… succhiando lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia” (Marx).

 

Oppure, ancor più semplicemente, è lo schermo sotto il quale veicolare contenuti, quali morte sangue e seduzione, che altrimenti non avrebbero modo di superare il vaglio di un’occhiuta censura.

Non è solo il cinema a essere interessato da questa figura. La nascente industria editoriale dell’Italia del boom, allorché anche il pizzicagnolo sotto casa aveva l’agio di fondare una casa editrice, s’impadronisce del tema. Vengono sfornati volumi e volumetti, riviste e rivistine, con pochi scrupoli verso il diritto d’autore e molta compiacenza verso il denaro che arriva a fiotti.

In questo panorama brulicante di pubblicazioni si stagliano due profili di scrittori, opposti e complementari. Ornella Volta, una raffinata intellettuale cosmopolita, e Emilio De Rossignoli, un esule dalmata anticomunista, giornalista e critico cinematografico. Sono loro a firmare due importantissimi volumi sull’argomento, usciti a breve distanza di tempo. La fortunata antologia I vampiri tra noi, del 1960, di cui Ornella Volta è coautrice insieme a Valerio Riva per Feltrinelli e il saggio Io credo nei vampiri, uscito nel 1961 per i tipi di Ferriani.

 

 

Per la Volta (cui fra l’altro risale anche l’espressione Italia lunare) il vampiro incarna una forza eversiva e liberatrice, che simboleggia il possibile nell’impossibile, ossia la vita che riesce a oltrepassare l’estinzione. Il vampiro realizza il sogno più profondo dell’umanità intera: sopravvivere alla propria morte.

Per De Rossignoli, al contrario, il vampiro è il male. Esso si riverbera nell’infame uomo politico che specula sui poveri, nella teppaglia che aggredisce gratuitamente la notte, nei pirati della strada che uccidono e fuggono, nella donna (“vamp” per l'appunto) che manda in rovina gli amanti con il suo fascino perverso. Egli, De Rossignoli, che nutre una sfiducia inappellabile nei confronti del genere umano, vede nella figura transilvanica il concentrato di tutte le efferatezze di cui l’uomo può essere capace e che richiedono, per essere giustamente represse, l’uso di un inflessibile apparato coercitivo-poliziesco, secondo la miglior tradizione conservatrice, quando non francamente reazionaria.

Ma questo scrittore di origine dalmata è significativo anche per un altro motivo. Molti dei suoi testi non sono firmati da lui col suo nome, ma con una pletora di pseudonimi, quali Martin Brown o Emil Ross o Jarma Lewis o Tim Dalton e altri ancora.

 

Si ritrova qui, in quest’autore sfortunato e marginale, qualcosa che la critica va delineando dal punto di vista teorico più o meno negli stessi anni, ossia “l’autorialità come costrutto, maschera e performance”. E, parallelamente, il concetto della scrittura come menzogna e prassi combinatoria, secondo tesi enunciate dal nostro Manganelli in Letteratura come menzogna (del 1967).

Del resto anche altri procedimenti impiegati da De Rossignoli, come l’uso di cosiddetti “pseudobiblia”, ossia opere inventate di autori inesistenti (che verrà ripreso, per esempio, da Dario Argento in Profondo rosso), paiono anticipare la mescolanza inestricabile di vero e falso (così come di alto e basso), ritenuta tipica del Postmoderno.

La seconda tappa del viaggio di Camilletti si occupa di spettri.

Anche qui c’è in ballo un’antologia, quella che nel 1960 pubblicano per Einaudi Fruttero e Lucentini, Storie di fantasmi

Nel fantasma, secondo Simon Hay, si ha sempre a che fare con un trauma irrisolto di carattere storico. Nel caso delle celebri storie di fantasmi della Gran Bretagna è in gioco il transito dall’aristocrazia rurale alla borghesia metropolitana. Ecco il perché delle dimore di campagna infestate, dei nobili che non vogliono scomparire dalle loro antiche magioni in cui si stanno insediando persone indegne.

Anche per i due letterati italiani il racconto di fantasmi tematizza qualcosa d’altro, di distante e alieno, sia nel tempo che nello spazio.

Fruttero e Lucentini non assemblano solo racconti noti di autori anglosassoni, ma ne producono anche di propri, servendosi però, esattamente come il De Rossignoli, di maschere di autori inesistenti, come il (è proprio il caso di dirlo) fantomatico P. Kettridge, autore di un “Ghosts don’t kill”, in realtà di Lucentini. Se poi si considera che questo falso Kettridge sarà usato, ma senza menzione, da Mario Bava per il terzo episodio dei suoi Tre volti della paura, dove figurerà come tratto da un inesistente racconto di Cechov, ci si accorge di essere in un’atmosfera labirintica che più postmoderna non si può.

Torino è ancora al centro dell’attenzione in questa tappa metapsichica, dato che l’altro volume preso in esame nel capitolo è Storie di spettri di Mario Soldati, uscito nel 1962.

Anche in questi racconti, come nella ghost story definita da Fruttero, c’è un’irruzione impercettibile dell’alterità in un ambiente di grigia banalità, altrimenti perfettamente “normale”. Anche qui, come nei testi inglesi, c’è l’espressione di una mutazione antropologica, una trasformazione del territorio. A volte si tratta proprio del riemergere di un’Italia tramontata, borghese e sabauda, all’interno di un modernissimo contesto industriale. Il fantasma è spaesante, e spaesato.

Opportunamente è citato qui il Perturbante freudiano. Anche nella sua declinazione francese, di De Certeau, di “familière etrangeté”.

Al proposito ci viene in mente come anche in Baudelaire, per esempio nel celebre sonetto delle Correspondances ma non solo, l’aggettivo familier abbia risonanze negative, o comunque inquietanti (come voleva Macchia).

Eppure i racconti di Soldati, e anche di altri, pur trattando di fantasmi si differenziano dagli analoghi di area anglosassone. La ragione è religiosa e storico-culturale. C’è, nei testi italiani, un’aria, un’atmosfera, un’aura che non si potrebbe definire altrimenti che: purgatoriale.

Più che inquietanti, gli spettri italiani sono malinconici, languidi. Non atterriscono. Non spaventano. Tuttalpiù trasmettono un senso di rassegnazione e di rimorso costante, ma non violento.

L’oltremondo italico pare essere tornato ai toni del grigio Sheol dei testi ebraici antichi. Il Purgatorio cattolico è l’elemento che distingue nettamente l’area culturale italiana (e mediterranea) da quella protestante e anglicana, dove si è assistito alla violenta estirpazione del Purgatorio da quell’immaginario. 

Se possiamo aggiungere anche qui una notazione: è lo stesso fenomeno che si rileva nei testi coevi di poeti come Sereni e Luzi, per cui, giustamente, Enzo Siciliano, ci pare, coniò il termine di “condizione purgatoriale”.

 

Assai interessante, per finire con questo secondo capitolo mediante un’osservazione estemporanea, è la rilettura di celebri testi di Guido Gozzano in chiave parapsicologica, dove le famose “buone cose di pessimo gusto” vengono presentate alla stregua di “oggetti induttori” e tutta la rievocazione gozzaniana si potrebbe definire come “retrocognizione”.

Dietro questo Mario Soldati metapsichico sta dunque un antenato illustre come Guido Gozzano.

Il terzo capitolo s’intitola Comizi d’orrore ed è un palmare richiamo ai pasoliniani Comizi d’amore. Se in quel film lo scrittore bolognese perlustrava l’Italia in lungo e in largo sondando i costumi sessuali degli anni Sessanta, qui la ricerca è volta a quei fatti che Charles Fort chiamava i “dannati”, e quarant’anni dopo Fanon avrebbe impiegato lo stesso termine per indicare i senza nome del Terzo Mondo, dannati della terra. I dannati o “forteana” (termine giornalistico inglese) sono tutti quei fatti per i quali non c’è spiegazione razionale: piogge rosse, piogge di fango, piogge di rane, dischi volanti, macchine nel cielo, iscrizioni su meteoriti, sparizioni misteriose eccetera, tutta roba degna di Voyager insomma.

Ebbene, esiste un’Italia, soprattutto provinciale, periferica, ricchissima di fenomeni di tal genere. E in questi anni, tra i Sessanta e i Settanta, si stampano fior di guide a tale Italia leggendaria misteriosa insolita e fantastica, come quella, monumentale, a cura di Mario Spagnol e Giovenale Santi, uscita nel 1966.

 

Pertengono all’argomento misteriose apparizioni avvenute nel cimitero abbandonato di Lanzago di Silea in provincia di Treviso, così come le esperienze di geometri medium anch’essi veneti, di funzionari del dazio siciliani che intrattengono rapporti con intelligenze aliene, guaritrici lucane e così via. Anche questi sono in qualche modo, a ben guardare, dannati della terra, lasciati indietro dal miracolo economico, o forse suoi necessari accompagnatori, in quanto collettori di tutte quelle tensioni, zone d’ombra, lati bui che normalmente non riescono a emergere nella cronaca (o storia) quotidiana.

Il quarto e ultimo capitolo si occupa del film Tre passi nel delirio, coproduzione italo-francese del 1968. In particolare dell’episodio intitolato Toby Dammit, diretto da Federico Fellini e liberamente tratto da Poe (come gli altri due episodi, del resto) e precisamente dal racconto Non bisogna scommettere la testa con il Diavolo.

In realtà è una ricodificazione di Poe in termini contemporanei, ambientata in una “swinging Rome”, molto pop e molto provincialmente esterofila.

Il protagonista (Terence Stamp, reduce dal pasoliniano Teorema) è un attore britannico, venuto a Roma per interpretare un western cattolico. La sua passione per le auto da corsa, in particolare la Ferrari, gli giocherà un brutto tiro. Anzi gli costerà senz’altro la testa.

Il film di Fellini, più che un horror, è una riflessione meta-cinematografica sulla possibilità stessa di un horror nell’Italia di quegli anni.

 

Non possiamo dire quanto risolta, quella riflessione.

Ma ciò non conta poi molto.

Ciò che conta è che di lì a poco, i fantasmi, i mostri, i vampiri, usciranno dai libri e dai film e si daranno convegno nelle piazze e nelle strade d’Italia. Le trame non saranno più quelle, fondamentalmente innocue, tessute da velleitari occultisti dilettanti, quali i protagonisti dello sceneggiato Il segno del comando, che viene citato da Camilletti all’inizio e alla fine del suo libro (Ringkomposition), ma quelle effettive degli stragisti, dei depistatori, degli affiliati alle logge segrete. I revenant saranno l’anarchico Pinelli o, pochi anni dopo, l’onorevole Moro. È avvenuto, purtroppo, il deprecato passaggio dall’innocente Italia dei Misteri ai terribili e sanguinosi Misteri d’Italia. 

 

Fabio Camilletti. Italia lunare: gli anni sessanta e l’occulto, Ed. Peter Lang, 2018, p. 258. 

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Lettera da Vienna

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Da uno schermo nella metro, alla fermata Museumquartier, il telegenico e azzimato primo ministro Sebastian Kurz ribatte sul suo tasto: basta migranti, bisogna intervenire, bloccare il flusso! L’onda xenofoba da Vienna va verso est, trovando consonanze in Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria. Insomma negli stati che un tempo erano parte dello sconfinato mosaico dell’Impero Austroungarico, franato clamorosamente dopo la Prima Guerra Mondiale. Quest’anno, in celebrazione della fine del conflitto e per l’anniversario della morte di Egon Schiele, il tema è quello canonico della Finis Austriae, che tanto venne alimentata da persone che venivano da altri luoghi della Cacania in cerca di fortuna alla grande capitale, suscitando spesso reazioni altrettanto poco benevole. Il titolo complessivo di un programma che dura un anno intero è Bellezza e abisso. Schiele è al centro di una strepitosa esposizione del Giubileo al Leopold Museum, in cui è possibile per la prima volta vedere molte opere prima tenute negli archivi. La superficie preferita dall’artista era infatti la carta e, come ci informa la solerte curatrice dell’archivio Verena Gumper, il tempo massimo di esposizione per questi delicati lavori è di tre mesi. Terribile è lo scavo a cui il maestro del disegno sottopone i suoi soggetti, scarnificati, ridotti all’osso. Colpiscono specialmente una radicale serie di neonati, catturati a poche ore dalla nascita e di maternità sottoposte a uno sguardo aguzzo, crudele. Una febbre di creazione continua a produrre a getto continuo autoritratti (violenti come quelli di Francis Bacon) e ritratti, spesso legati ai misteri di eros.

 

 

Mirabili sono infatti quelli della sorella nel periodo in cui ella aveva intrapreso una relazione con una ragazza. La vita dell’artista si interrompe a ventotto anni lasciando dietro di sé un corpus enorme, che all’inizio suscitò spavento e ripugnanza. Ai piani superiori del museo, proprio partendo dall’eredità austriaca, da Klimt e Schiele, va in scena per la prima volta la strepitosa collezione di Heidi Orten, che sotto l’etichetta Wow!, a dire il vero meritata dalla ricchezza strepitosa del display, propone un ampio raggio di opere. Munch, Magritte, Dubuffet, Bacon, il gruppo Cobra, senza scordare una vastissima selezione di espressionismo tedesco (in primo piano Nolde) fino all’attualità più recente, una raccolta nata in simbiosi con la curatrice Agnes Husslein Arco, che con lei realizza scelte di acquisto. Il Belvedere indaga invece sull’eredità dell’epoca convulsa che segnò la fine dell’impero austroungarico. Beyond Klimt. New Horizons in the Central Europe, realizzata in comune con Bozar di Bruxelles, indaga con dovizia di materiali la fine della centralità viennese, con una molteplicità di stili, movimenti, individualità, spesso legate a violenti movimenti rivoluzionari tra le due guerre. Tra i moltissimi artisti in esposizione, spicca in primo luogo la mirabile, magnifica Friedl Dicker-Brandeis, maestra di arti tessili alla Bauhaus, pittrice, grafica, creatrice del laboratorio di espressione artistica dei bambini nella città-prigione di Terezin, in cui fece narrare la storia della reclusione con i mezzi di fortuna che il luogo rendeva disponibili.

 

Notevolissimi gli esperimenti profetici nel 3d del futuro di Victor Vasarely, le lugubri fantasie notturne della surrealista ceca Toyen, senza scordare le sinistre incursioni del polacco Pavlicek, tra scienziati pazzi e spettri-uccelli, nella moltiplicazioni di segni del conflitto imminenti. Notevolissima poi la celebrazione, nell’Atelier 21, di Gunther Brus, tra le voci più estreme dell’azionismo viennese. Il legame con Schiele è evidente nell’uso di un corpo sempre più contorto, disfatto, manipolato, in performances famose come Selbstmutilation. Colpisce specialmente la sequenza di insulti alla bandiera imperiale, vilipesa in ogni possibile modo, sotto l’aggressione di liquidi organici, mentre si dispiega un sorprendente talento come graphic notevolist.

 

Il Wien Museum fornisce un altro tassello sorprendente della vicenda della Finis Austriae nell’opera, di notevolissimo impatto, di Otto Wagner, vicino alla fermata della metro di cui ha disegnato magistralmente la fisionomia. Qui, come in tutte le altre esposizioni, spicca il ruolo delle donne in questo sommovimento tellurico delle forme e finalmente è lo Jüdisches Museum, ottimo come sempre nelle proposte espositive, a fornire il tassello mancante. Lo fornisce la notevole mostra The Places to be. Salons Spaces of Emancipations, in cui vengono ricostruiti perfettamenti i salotti viennesi, in cui si definivano le scelte culturali e artistiche, mentre nel frattempo le strepitose signore ebree (alcune di loro avevano scelto di convertirsi) trovavano la via per un nuovo ruolo nella società. Figure leggendarie come Fanny Arnstein e Josephine Wertheimstein, fino alla straordinaria Berta Zuckerkandl, sepolta al Père Lachaise, che fu ritratta da Klimt e squisita testimone della sua epoca.

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La lampada Tizio di Richard Sapper

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Non sono molti gli uomini, e ancor meno i designer, che avrebbero saputo dire no a Steve Jobs, rifiutando ben 30 milioni di dollari l’anno, per restare fedeli alla propria libertà creativa, ma soprattutto per mantenere gli impegni di lavoro già presi. 

Richard Sapper (1932 – 2015), invece, lo ha fatto. 

“Jobs voleva assumermi per progettare il design dei computer” ha dichiarato lui stesso in un’intervista rilasciata nel 2013 al magazine londinese Dezeen, che si occupa di architettura e di design:  “ma non avevo voglia di andare in California e non volevo abbandonare le cose sulle quali stavo già lavorando. Inoltre, Apple non era all’epoca una grande società, era solo un piccolo produttore di computer; ero comunque molto interessato, ma avevo tra le altre cose un contratto in esclusiva con IBM”. 

Si fa riferimento, ovviamente, a un periodo precedente il 1985, prima dalla cacciata del co-fondatore dall’azienda; quell’offerta è invece stata subito accolta dal designer inglese Jonathan Ive, a tutt'oggi Chief Design Officer di Apple.

 

Richard Sapper, tedesco di nascita e di convinta formazione bauhausiana, ma milanese per scelta fin dal 1958 e italiano in pectore per sensibilità artistica, è meno noto al grande pubblico di quanto non lo siano gli oggetti da lui creati, frequentemente presenti nelle case, prediletti, scelti per il loro appeal e per la loro funzionalità, ma assai più raramente per affezione nei confronti del loro ideatore. 

Esponente di quella corrente che è stata definita del good design italiano, Sapper ha progettato oggetti belli ma anche utili e tecnologicamente sempre molto avanzati e concepiti per agevolare le azioni della vita quotidiana di chi li utilizza. Grazie ad essi si è aggiudicato ben dieci Compassi d'oro e molti suoi progetti fanno parte da tempo della collezione del MoMA, oltre ad essere esposti nei principali musei di design del mondo. L’undicesimo Compasso d'Oro Richard Sapper lo ha ottenuto un anno prima di morire; gli è stato conferito alla carriera, con la seguente motivazione: «per aver unito il rigore tedesco e la genialità italiana nel disegnare una moltitudine di prodotti straordinari e di grande successo in ambiti anche molto distanti tra loro.»

 

Lampada Tizio, Artemide. Design di Richard Sapper, 1972. Premio Grand Prix XV Triennale, 1974; Medaglia d'oro XV Triennale, 1974; Selezione Compasso d'Oro, 1979. Fotografia di Serge Libiszewski (meglio noto come Sergio Libis).


Tra i suoi oggetti più famosi, spicca la lampada da tavolo Tizio, da lui progettata nel 1970 e messa in produzione da Artemide nel 1972, uno dei suoi pezzi più noti e in assoluto uno dei più venduti al mondo. Nata da una sua esigenza personale, poiché desiderava: “una lampada da disegno che avesse un ampio raggio di movimento e che, nonostante questa caratteristica, fosse poco ingombrante”, la Tizioè un prodigio di illuminotecnica, che era assolutamente innovativo quando fu progettata e rimane insuperato ancora oggi.

 

Richard Sapper, tavola di progetto della lampada Tizio, firmata e datata 12 maggio 1970; a destra: packaging originale della Tizio.


Questa lampada straordinaria è dotata di un corpo illuminante di forma rettangolare e di dimensioni assai ridotte, che ruota su se stesso ad angolo giro rendendo così possibile orientare la fonte luminosa nella direzione desiderata ed è fornito di una lampadina alogena, la cui luce viene poi moltiplicata da un piccolo schermo riflettente. Ma quello che la caratterizza più di ogni altra cosa è la totale assenza di cavi elettrici. La corrente, infatti passa attraverso i suoi bracci che fungono da conduttori. Un ottimo isolamento impedisce di prendere la scossa. Questa lampada poi ha la peculiarità di essere completamente snodata, così da poter assumere moltissime posizioni con il semplice tocco di un dito, grazie a un bilanciatissimo gioco di contrappesi. Di angolo, in angolo, ripiegata, oppure lunga distesa, orientata verso l’alto in modo perpendicolare al piano su cui è appoggiata, o ad esso parallela, rannicchiata su se stessa, protesa, diretta verso il basso, verso il lato destro, verso quello sinistro, in su o in giù, non ci sono limiti alla orientabilità della sua luce. La compongono all'incirca un centinaio di pezzi uniti tra loro senza alcuna vite, ma grazie a dei poussoirs, ovvero a delle specie di bottoni automatici, che si congiungono a pressione, aiutati dal magnetismo, affinché, nel caso in cui la lampada dovesse inavvertitamente cadere, le parti si separino senza danno, così da poter poi essere riassemblate con estrema facilità. Il trasformatore inserito in una base cilindrica le conferisce stabilità.  

Se la sua peculiarità primaria è costituita dalla sua elevata tecnologia, la forma che per il tramite di questa si determina non è di certo un motivo secondario ad averle guadagnato fin da subito il favore del pubblico. Inoltre il vago zoomorfismo di cui la connotano i movimenti che può compiere, facendola assomigliare, di volta in volta, a una giraffa, a un formichiere, alla proboscide di un elefante e ad altro animale ancora, oppure a una giostra, o a tutto quello che suggerisce la fantasia di chi la utilizza, non solo la rende ancor più gradevole e simpatica, ma ha di sicuro contribuito al suo duraturo successo.

 

Richard Sapper non è stato né un critico, né uno studioso del design, come invece molti suoi colleghi, in quella stagione in cui il design si è affermato e necessitava di teorizzazioni. Il suo è stato invece un lavoro di trincea, che lo ha visto combattere la propria battaglia creativa sul campo, in un corpo a corpo senza quartiere con gli oggetti che ha progettato, o sarebbe meglio dirli strumenti, come li definiva lui, avvalendosi di tutte le sue innumerevoli conoscenze tecnologiche e umanistiche (in Germania, aveva infatti studiato ingegneria, filosofia, grafica ed economia politica). Sapper ha scritto poco e ha realizzato molto, ma questa sua dichiarazione ne riassume in modo piuttosto efficace la poetica:

 

"Recentemente ho letto, in un articolo di storia, che l’invenzione dell'alfabeto ha cambiato il modo di pensare del mondo occidentale, nel senso che, da allora in poi, tutto deve essere scomposto e poi ricomposto in maniera consecutiva per poter essere letto e compreso; che questa scuola di pensiero logico, efficiente e monodimensionale, ci ha fatto conquistare il mondo, ma che, nel processo, abbiamo perso molto di quel pensiero che non può essere scomposto in lettere o cifre, che non può essere spiegato logicamente. Ecco, adesso so perché mi voglio rifiutare ogni volta che qualcuno mi chiede di spiegare il mio lavoro. Non c’è niente da spiegare. Quando si disegna non si pensa in parole, ma per immagini tridimensionali, colorate, semoventi, che si toccano, delle volte suonano, possono essere calde e ti bruciano. Così ci entrano i materiali, le sensazioni delle superfici, i vapori, il fuoco, e infine, magari, mangeremo quello che contengono. 

Mi auguro che sia buono".

 

E di fatto, tutti gli strumenti progettati da Sapper non sono soltanto utili ed estremamente efficaci nell’assolvere ai compiti per cui sono stati creati, ma sono anche molto belli, seppure di una bellezza non convenzionale e neppure fine a se stessa (il maestro era “nemico della Forma per la Forma”) proprio perché scaturisce dall’avanzatissima tecnologia da cui traggono origine.

Titius docet.

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Dieci oggetti per l'estate
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Lo spirito dell’alveare

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A Berlino, in contemporanea, due mostre si misurano con due questioni cruciali per la cultura della nostra epoca. La prima riguarda l’eredità storica dell’arte moderna e la sua rivendicazione di autonomia estetica, tradizionali capisaldi i cui presupposti sociali e culturali e le cui pretese di universalità appaiono assediati sia dall’affermarsi di una visione policentrica, multiculturale, del mondo attuale sia dalla crescente erosione della stessa categoria di “arte” a vantaggio di quella ben più elastica e accogliente di cultura visiva. La seconda tocca invece le istituzioni-simbolo del “mondo dell’arte”: il museo e la mostra. In che modo aprire – “rendere inclusivi”, come si dice – questi luoghi a pubblici eterogenei, portatori di istanze culturali, di identità spesso mutuamente conflittuali?

 

Nonostante le differenze – la prima è un allestimento tematico di una grande collezione di arte del XX e XXI secolo, la seconda una stratigrafia multidisciplinare di un singolo momento della vicenda novecentesca – sia Hello World (Hamburger Bahnhof – Museum für Gegenwart, fino al 26 agosto), che Neolithische Kindheit. Kunst in einer falschen Gegenwart, ca. 1930 (“Infanzia neolitica. Arte in un falso presente, 1930 ca.”, Haus der Kulturen der Welt, fino al 9 luglio), entrambe le esposizioni si oppongono alla trasformazione dell’esperienza dell’arte in qualcosa al tempo stesso, e perversamente, di sempre più irrilevante e sempre più monetizzabile. Ma come inscrivere una indispensabile revisione critica della vicenda moderna in una cultura in cui l’estensione globale delle comunicazioni, la tirannica aspirazione al consumo, la reificazione delle relazioni sociali, il livellamento midcult del gusto, la fine dell’autosufficienza estetica, hanno eroso l’idea di arte come luogo di sperimentazione audace, complessa, scomoda, irriducibile al presente?

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

 

La risposta di Hello World potrebbe essere riassunta così: rendiamo leggibili anzitutto i conflitti rimossi, le narrazioni cancellate o emarginate, gli scenari politici e sociali remoti o invisibili nel museo tradizionalmente inteso come “deposito”, come immacolato riparo dallo sporco della Storia. Per una collezione le cui vicende riflettono la tragedia tedesca – dall’epoca guglielmina al nazismo, dalla partizione Est/Ovest alla riunificazione post-1989 – questa esigenza di nuova storicità si traduce nella sistematica contestazione delle tradizionali gerarchie di valori, dei concetti di “periferia” e “centro”, di high e low, nella sottolineatura di ibridazioni e scambi inediti tra culture.

 

Sono esempi di questa attitudine le sezioni allineate nella lunga “manica” della Hamburger Bahnhof, a partire da quella dedicata all’Arte Popular messicana e all’originale  rapporto tra folklore, sensibilità modernista, sguardo antropologico e programmi rivoluzionari che in Messico, tra anni Venti e Quaranta del secolo scorso, alimentò al tempo stesso esperimenti di radice surrealista e imprese monumentali del muralismo, così come il lavoro di artisti di profilo diverso come Dr. Atl (Gerardo Murillo), tra i propugnatori del ritorno alle radici precolombiane, e Tina Modotti, con inserti contemporanei come il video Xilitla (2010) di Melanie Smith, dedicato alla allucinatoria stravaganza architettonica di Las Pozas, realizzata in piena giungla dall’eccentrico mecenate inglese Edward James.

 

Stesso discorso può valere per la sala dedicata alle culture indigene dell’America del Nordovest e al loro impatto sulla pittura americana o per gli ampi insiemi dedicati alle esperienze artistiche di opposizione nei paesi dell’Europa orientale e in Unione Sovietica nel periodo della Guerra fredda, in cui le difficoltà e i rischi di un dissenso tanto culturale che politico trovava spesso forme alternative e complementari alla produzione di opere, come azioni collettive, pubblicazioni o forme di scambio internazionale. In un’altra sezione, le connessioni tra il gruppo dada giapponese Mavo e la scena artistica berlinese dei primi anni Venti vengono indagate come un caso di precoce e originale appropriazione delle strategie più radicali dell’avanguardia in un contesto culturale remoto.

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento della collezione Marx

 

In tutti questi casi il punto di vista adottato dai curatori di Hello World rappresenta un necessario correttivo alle narrazioni convenzionali dell’arte novecentesca, tipicamente incentrate su pochi, selezionati centri europei e nordamericani, e insieme un’inevitabile presa di rischio. Annettendo il contesto artistico alle metodologie e alla prospettiva dei cultural studies e delle indagini postcoloniali, ed esaltando, come reiterano i testi di sala, il valore politico di tali scelte, non può infatti che attenuarsi o diventare irrilevante la differenza, il dissidio, tra opera e testimonianza, tra documento e fiction: quanto si guadagna come estensione della visuale, come più precisa misurazione della mutua interferenza tra sfera simbolica e sfera sociale, si perde in termini di profondità di lettura storica e critica dei fatti artistici.

 

Il problema è che la contestazione del “canone occidentale” e la simultanea necessità di una nuova teoria mondiale dell’arte finiscono nella mostra per basarsi su una sostanziale incomprensione dei meccanismi di competizione, sovversione e costante riscrittura con cui lo stesso canone si è venuto formando, nonché su una restrizione del perdurante scarto di portata, complessità e novità prodotto proprio dalle opere e dal loro eccedere l’epoca e il contesto, dalla loro capacità di incubare altri potenziali di senso, che rimangono integri anche dismettendo – come argomenta su “Current Affairs” Daniel Walden– lo stesso deformante e ormai inservibile concetto di “Occidente”. Sullo sfondo, inconfessata, accanto alla salutare apertura multidisciplinare, si profila un’ideologia della pratica curatoriale come rimedio alla condizione indebolita o degradata dell’opera d’arte ma resa in questo modo ancor più dipendente da un sistema istituzionale che la assoggetta alla sua drammaturgia, al suo disegno di autoperpetuazione.

 

Diversi sono i punti in cui Hello World subisce le conseguenze impreviste di questa agenda. Ancor più della sezione Agora che accoglie i visitatori all’ingresso con una vacua, scontata retorica del dialogo e dell’accoglienza (e ciò nonostante la presenza di lavori interessanti come Pavilion for International Institute of Intellectual Co-operation, 2016, di Goshka Macuga), è nelle sale in cui è riunita una notevole selezione di sculture del XX secolo che si possono misurare i limiti della pedagogia espositiva adottata dai curatori. L’essenziale e intricata relazione tra ricerche moderne e arti “primitive”, l’arcaico, l’inc0nscio (la sezione è convenientemente intitolata Woher kommen wir?, “da dove veniamo?”), viene qui ricondotta a un semplicistico ridimensionamento del valore antiautoritario delle esperienze d’avanguardia, epitomizzato, con involontaria comicità, nell’accostamento tra Le Penseur (1880) di Auguste Rodin e il Ritratto dello scimpanzé “Missie” (1916-17) di Anton Puchegger. Molto più interessante osservare da vicino i lavori, tra cui spiccano ad esempio, accanto a nomi celebri (Brâncuși, Giacometti, Ersnt, ecc.), figure meno note come Hans Josephsohn, sua una impressionante “massa” vagamente antropomorfa (Senza titolo, 2002), o i molli volumi neri di Thomas Schütte (Senza titolo, nn. 4 e 10, 2001).

 

Hello World, Hamburger Banhof, Berlino, vista dell'allestimento

                                    

Forse il colmo di questa urgenza di giustificazione lo si misura nel trattamento riservato alla collezione Marx, un importante insieme di opere di artisti del secondo Novecento come Warhol, Beuys, Rauschenberg, Twombly ecc. Qui l’ortopedia istituzionale – in una sezione intitolata addirittura “diritti umani dell’occhio” – è esplicita: com’è possibile rettificare una donazione irrimediabilmente marchiata dal puro arbitrio del collezionista? In mancanza di soluzioni definitive ci si affida alla intraprendenza del duo cyan (Daniela Haufe e Detlef Fiedler), pedanti lettori di Aby Warburg e Georges Didi-Huberman che collocano sulle pareti “tavole” a sfondo color pastello con riproduzioni di fotografie e documenti incaricati di rieducare, mostrando loro i non-detti e i non-visti della contigua, ingombrante high art, gli inconsapevoli spettatori. Anziché un effetto ironico o critico qui è l’inconscia infantilizzazione del pubblico a rivelarsi il vero significato dell’operazione.

 

Joseph Beuys, Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”), 1982–83, particolare dell'installazione

 

I momenti migliori di Hello World restano così quelli in cui più difficile si dimostra la costruzione di un frame ideologico generale: la sezione dedicata all’uso degli strumenti di comunicazione come medium artistici tra anni ’60 e ’70, a partire dal progetto Three Country Happening (1966) di Marta Minujín, Allan Kaprow e Wolf Vostell, o gli Interludes con opere maggiori di On Kawara (il grande ciclo Date Paintings) o Bruce Nauman (l’installazione My Soul Left Out, Room That Does Not Care, 1984), e il sempre straordinario insieme di opere e installazioni di Joseph Beuys, e in particolare Das Ende des 20. Jahrhunderts (“La fine del XX secolo”) (1982–83), con i suoi grandi monoliti di basalto posati sul pavimento, la cui minerale, misteriosa impassibilità continua a turbare i nostri tentativi di scioglierci finalmente dai legacci con l’oscurità novecentesca.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Pur con premesse simili, assai diversa appare la strada percorsa alla Haus der Kulturen der Welt dalla mostra che prende il titolo da un’espressione dello storico e teorico tedesco Carl Einstein, figura essenziale del panorama culturale tedesco tra le due guerre, per il quale quella dell’“infanzia neolitica” è la condizione di un’arte che si misura con un mondo sempre più ostile e frammentato e ricerca una possibile rifondazione dell’umano guardando alle forme di vita collettiva e all’immaginario della preistoria. La mostra esplora così le connessioni e gli intensi scambi tra arti visive e discipline diverse (etnologia, psicoanalisi, filosofia, ecc.) tra anni Venti e Trenta del Novecento come forme di inquieta ricerca di vie di uscita dalla spirale imperialista, totalitaria e razzista, dalla vera e propria crisi di civiltà che attanaglia l’Europa. Su questo sfondo, le esperienze artistiche, in particolare quelle legate al surrealismo, vanno alla ricerca di un orizzonte alternativo, ritrovandolo nelle culture premoderne, “primitive”, negli strati profondi della psiche e del linguaggio, nell’“animismo” – come lo chiamò ancora Einstein rovesciando di segno un classico termine dell’etnologia evoluzionista ottocentesca – cioè una forma di percezione sensibile a una pluralità di forze prive di un riferimento “centrale”, di un fondamento identitario, in senso tanto estetico che politico.

 

Neolitische Kindheit, Haus der Kulturen der Welt, vista dell'allestimento

 

Nel solco di altre mostre enciclopediche tenutesi nello spazio diretto da Anselm Franke, anche Neolithische Kindheit organizza il suo percorso come una fitta trama di riferimenti alla cultura visiva, alla storia e alla teoria dell’arte, accostando opere e materiali eterogenei, libri, film, fotografie, documenti. Lo spettatore è chiamato a un lavoro di autonomo montaggio all’interno di un percorso policentrico che connette opere di artisti di profilo e notorietà assai diverse, come il belga Frits van den Berghe, idiosincratico pittore di sensibilità surrealista, Max Ernst, Paul Klee (con alcuni straordinari disegni degli anni Trenta), Toyen, fotografie di esponenti di primo piano del surrealismo parigino come Brassaï, Florence Henri, Eli Lotar e Raoul Ubac, film di Jean Painlevé, Sergei Eisenstein (con un frammento inedito del mai terminato film sul Messico) e Jean Renoir (sorprendente il suo cortometraggio Sur un air de Charleston del 1926), a una prospezione del paesaggio intellettuale degli stessi anni, i cui diversi filoni e discipline sono testimoniate da una cospicua presentazione di pubblicazioni e altri materiali. La scommessa, ambiziosa, è “decolonizzare” etnologia, antropologia, pensiero filosofico e arte modernista, senza però evacuarne il potenziale dialettico, il valore di critica radicale tanto dell’eurocentrismo che della razionalità strumentale e dei meccanismi di assoggettamento e dominio consustanziali alla forma di vita capitalista.

 

Gli anni Trenta giungono così a interrogare la nostra epoca. Se di fronte a conflitti e ineguaglianze intrattabili, alla crisi della democrazia e dello stesso progetto utopico moderno, sorse irresistibile in Germania e in Europa un progetto di sottomissione a un Ordine imposto violentemente come orizzonte escatologico collettivo, emerge dall’atomizzata società contemporanea l’immagine inconcepibile dello sciame e con essa una logica dell’alveare, una proiezione del soggetto a scala collettiva non per mezzo dei tradizionali strumenti della religione e dell’ideologia o attraverso il conflitto, ma piuttosto grazie un potente, pulsionale ed estatico movimento verso il gruppo, verso l’abbraccio sincronizzato con gli altri. In questo paesaggio postumano, l’arte, anziché dissolversi, appare al contrario come uno strano quantum energetico singolarmente durevole, al cui interno, ha scritto Edward Said, l’identità umana si mostra proteiforme, instabile e indifferenziata nella sua ambivalenza come qualsiasi altra cosa esistente al mondo.

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Macdonald, Eco e la cultura di massa

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Il libro del critico culturale statunitense Dwight Macdonald Masscult e Midcultè un piccolo classico che non era più disponibile per i lettori italiani, nonostante avesse dato origine, dopo l’uscita nel 1960, a un vasto dibattito in tutto il mondo. In Italia lo hanno analizzato, ad esempio, Umberto Eco e Gillo Dorfles. Bene ha fatto dunque l’editore Piano B a riproporre, con la cura e la traduzione di Mauro Maraschi, tale volume, già tradotto nel nostro Paese nel 1969 e nel 1997. Che cosa sosteneva Macdonald? Che a fianco della tradizionale distinzione tra la cultura alta (o Highcult), quella degli scrittori e dei musicisti importanti, e la cultura di massa (o Masscult), quella che viene sostanzialmente prodotta dai media, la notevole diffusione dei media di massa (cinema, radio, televisione) stava facendo emergere un nuovo tipo di pubblico che richiedeva un tipo di cultura appositamente realizzata: la cultura media o Midcult. Una cultura in grado di minacciare l’esistenza delle altre e basata spesso sullo sfruttamento delle innovazioni realizzate dalle avanguardie culturali per produrre e immettere sul mercato dei prodotti di natura esplicitamente commerciale. Non è infatti qualcosa che viene prodotto “dal basso”, ma il risultato delle operazioni di marketing intraprese dall’industria culturale per andare incontro alle richieste delle numerose persone che aspirano a prodotti maggiormente sofisticati. Rappresenta dunque una specie di “kitsch”, è raffinata, subdola e in grado di trarre in inganno persino i critici di professione. 

 

È sorprendente però che nella nuova edizione di Piano B, alla fine del saggio Masscult e Midcult di Macdonald, sia stato collocato senza nessuna spiegazione un testo di Umberto Eco che ha l’aspetto di una postfazione apparentemente scritta per l’occasione. In realtà, si tratta di un ingiustificato collage di parti di testo tratte dal celebre volume Apocalittici e integrati, uscito nel 1964, dunque pochi anni dopo la pubblicazione di Masscult e Midcult. In quel volume Eco si confrontava in maniera approfondita con il problema teorico della cultura di massa, all’epoca particolarmente rilevante. E le riflessioni che sviluppava muovevano anche da un’analisi del lavoro di Macdonald, che peraltro veniva citato più volte. L’operazione editoriale di Piano B è però sicuramente discutibile e riteniamo opportuno che gli eredi di Eco, solitamente così attenti alla sua eredità culturale, facciano sentire la loro voce critica.

 

Eco peraltro in Apocalittici e integrati prendeva chiaramente le distanze dall’impostazione di Macdonald. Sosteneva, ad esempio, che i tre livelli culturali di tale autore (high, middle e low) non corrispondono necessariamente nella società a una precisa strutturazione per classi sociali e che tali livelli non esprimono tre differenti livelli qualitativi. Infatti, a suo avviso, «Si può avere un prodotto high brow che si raccomanda per qualità di “avanguardia” e richiede, per essere fruito, una certa preparazione culturale» e che tuttavia «deve essere giudicato “brutto”», mentre, al contrario, «vi possono essere prodotti low brow, destinati a essere fruiti da un vastissimo pubblico, che presentano caratteristiche di originalità strutturale, capacità di superare i limiti imposti dal circuito di produzione e consumo in cui sono immessi, tali da permetterci di giudicarli come opere d’arte dotate di una loro assoluta validità» (p. 53). Le cose cioè, per Eco, nel campo della fruizione culturale sono estremamente più complesse di quanto di solito si creda. 

 

Va considerato del resto che oggi dall’uscita del libro di Macdonald sono passati quasi sessant’anni e la vasta diffusione delle tecnologie digitali ha profondamente cambiato sia il mondo dei media che l’esperienza quotidiana di vita delle persone. Anche la cultura sociale dunque è notevolmente cambiata, sebbene il Midcult non sia scomparso, ma si sia modificato e si sia ulteriormente diffuso. Di conseguenza, anche il pensiero di Eco sull’argomento nel tempo è cambiato, anche se in realtà non ha variato il suo punto di vista, ma l’ha semplicemente intensificato e “radicalizzato”. 

Ad esempio, in un articolo pubblicato nel 2010 su L’Espresso, Eco ha sostenuto che nelle società avanzate i diversi livelli culturali si sono progressivamente mescolati, come effettivamente è avvenuto. E soprattutto Eco ha esplicitamente affermato in tale articolo che a differenziare socialmente gli individui oggi non sono tanto i contenuti e le forme espressive dei prodotti culturali, ma le modalità della fruizione di questi ultimi. Vale a dire che a differenziare oggi è soprattutto il differente sguardo con cui ci si può porre nei confronti di un qualsiasi prodotto culturale, indipendentemente dalle modalità con cui questo si presenta ai nostri occhi. Non siamo molto lontani dunque dal concetto espresso nel passo di Apocalittici e integrati che viene citato alla fine della “postfazione” contenuta nel volume di Piano B: «Ma quante volte il messaggio artistico non viene usato come stimolo evasivo, quante volte lo stimolo evasivo non viene visto con occhio critico e diventa oggetto di una riflessione consapevole?». 

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Masscult e Midcult
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La poltrona Proust di Alessandro Mendini

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Nessuno ignora che il termine tedesco kitsch, di incerta origine, sia correntemente usato con il significato di cattivo gusto. Ma non è invece altrettanto noto il motivo per cui l’uomo moderno abbia necessità del Kitsch. 

Milan Kundera (1929), ad esempio, nel 1986, ha dichiarato che il bisogno di Kitsch dell’uomo-Kitsch (Kitschnremsch) nasce dalla sua esigenza di guardarsi allo specchio della menzogna, quello che abbellisce le cose con orpelli ridondanti e consolatori, e di riconoscersi in esso con empatica gratificazione (L'arte del romanzo). 

Una trentina d’anni prima, Hermann Broch (1886 - 1951) aveva già chiarito come all’origine del concetto di Kitsch ci fosse il conformismo, ovvero il desiderio di confermare lo status quo dei valori e delle abitudini correnti, contro l’idea di modernità, che implica in sé il concetto di rinnovamento, se non addirittura quello di sovversione delle abitudini e delle convenzioni consolidate, siano esse sociali, oppure culturali. Per Broch, il Kitsch, al suo apparire, definiva quindi l’attitudine di chi, pur di essere socialmente accettato, si appiattiva sulla conferma dei luoghi comuni, delle opinioni correnti e dell'apprezzamento degli oggetti graditi ai più. 

 

Al contrario, oggi, ad essere Kitsch è invece l’eccessiva identificazione con ciò che è “moderno”, con il bisogno di essere sempre più aggiornati, sempre più “à la page”, sempre più “connessi”, sempre più simili agli altri nel parossistico eccesso di contemporaneità, indotto, e neppure tanto subdolamente, dall’immensa vitalità dei mass media e dei social, che hanno finito per trasformare in conformismo la bulimia di contemporaneità. In ultima istanza, insomma, per Broch ad avere indossato i panni del Kitsch è adesso l’esasperata rincorsa alla modernità (cfr.  Milan Kundera, Il KitschL’universo del romanzo).

In un suo famoso testo del 1971, anche Abraham Moles (1920-1992) definisce il Kitsch un “fenomeno connotativo della nostra contemporaneità” che è stato rapidamente veicolato da Occidente ad Oriente per il tramite di tre vettori: il consumismo, figlio primogenito del capitalismo; l’edonismo, che implica l’affermazione della bellezza fine a se stessa e il feticismo degli oggetti, proprio della civiltà industriale. L’aurea mediocritas e l’inadeguatezza, poi, sono i caratteri che inducono l’individuo ad accumulare oggetti, sospingendolo verso il loro spasmodico possesso, secondo la locuzione: sono ciò che possiedo. Chiarisce Moles: «La possession d’un meuble noble vaut titre de noblesse», ovvero quel che io possiedo mi definisce, mi qualifica e io mi identifico con esso (Psychologie di kitsch. L'art du bonheur).

 

È proprio dopo aver letto quel libro di Moles, che Alessandro Mendini (1931) inizia a interrogarsi sul significato del fare design e sulla necessità di un ritorno a una “progettazione banale”. Così scrive nel 1979, in un testo che ha proprio come titolo Per un’architettura banale

 

“Mi sembra opportuno, oltre che doveroso, pubblicare questo scritto a commento di questo libro di Moles, perché è proprio dalla lettura di esso che ho iniziato varie considerazioni. […] lì non solo viene data una definizione decente di Kitsch, ma anche una spiegazione che trascende lo stereotipo del cattivo gusto, non riferendolo al bello o al brutto, al buon gusto o al suo contrario, ma considerandolo un ‘fatto sociale’ che va analizzato e studiato nei termini di un rapporto con le istituzioni e la struttura sociale.”

 

In una sorta di sintonia precorsa con questa temperie culturale, così come capita ai veri artisti, sempre in anticipo sui tempi, nel 1976, Mendini aveva già ideato la poltrona Proust, un oggetto di frontiera, sul crinale del kitsch, al limite del sublime. L'aveva concepita quale estremo esito dell’esperienza del Radical Design, cui dal 1970 aveva offerto ampio spazio di dibattito sulle pagine della rivista Casabella, da lui diretta, ma anche per tenere a battesimo la propria adesione allo Studio Alchimia, da poco fondato da Alessandro Guerriero. Di lì a breve, così scriverà lui stesso nel manifesto del movimento: “Per Alchimia vale la despecializzazione, ovvero l’ipotesi che debbano convivere metodi di ideazione e di produzione ‘confusi’, dove possano mescolarsi artigianato, industria, informatica, tecniche e materiali attuali e inattuali”, esattamente come avviene nellaProust.
Non va dimenticato poi che la poltrona Proust aveva visto la luce ben tre anni prima dell’uscita del testo di Jean-François Lyorard La condition postmoderne, quasi a volerne preannunciare gli assunti. 

Vessillifera del postmodernismo progettuale,  questa coloratissima poltrona ne è anche l’icona più famosa.

In questo breve video di Rai Arte, è lo stesso Mendini a raccontare la storia della poltrona Proust, un oggetto da lui soltanto pensato e non sortito da un progetto con tavole disegnate. “Il progetto”scrive il designer “è un assoluto non perseguibile: tanto vale rinnegare il miraggio ontologico e aggredirlo per negazione, enfatizzando al massimo l’errore.” Altrove, in una delle sue più belle dichiarazioni di poetica creativa, che appare perfetta per la poltrona Proust, egli afferma di voler progettare  “Oggetti, architetture e ambienti tesi ad oltrepassare i confini pratici, come fossero discreti sacerdoti dei movimenti e degli sguardi quotidiani”.

 

Alessandro Mendini Poltrona di Proust, Studio Alchimia, esposta al MAD, Musée des Arts Décoratifs, Paris, 1979.


Due esempi di pattern realizzati a mano della divisa della poltrona Proust.


Così come era già avvenuto nel Cubismo, quando Picasso e Braque avevano introdotto sulla tela brandelli di pagine di quotidiani magistralmente riprodotti affinchè apparissero ‘autenticamente falsi’, così Mendini, in un viaggio in Veneto, si innamora di una poltrona palesemente ‘finto rococò’, kitsch secondo la definizione corrente, e la trasforma rendendola eccelsa, perché appaia autenticamente falsa, liricamente falsa, vestendola con una livrea eterea, fatta di toccature di colori pastello. Non è un caso che la chiami Proust e la decori con un pattern tratto da un macroscopico ingrandimento di un dettaglio di quadro di Paul Signac, raffigurante un prato assolato.

Anche il re-design di questo oggetto risente dell'eco lunga delle esperienze dada americane dei ready made di Man Ray e di Marcel Duchamp, così come accade per la maggior parte delle ricerche artistiche del secondo dopoguerra. 

 

E per la poltrona Proust il paragone con un'opera d’arte non è peregrino. Nel clima culturale di L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Mendini avversa palesemente la serializzazione industriale degli oggetti e così ogni poltrona Proustè un unicum, ‘romanticamente’ dipinto a mano, affinchè non esista un esemplare identico ad un altro. È pure questo contribuisce a farne un oggetto di confine tra prodotto dell'industrial design e objet d'art, tra Kitsch e chef d'oeuvre, tra la pittura e la scultura (gli intagli della scocca sono scolpiti a mano), facendo sì, come afferma lo stesso Mendini, che essa sia contemporaneamente ciascuna di tutte queste cose e anche il suo esatto contrario.

 

Per questa sua rivisitazione Mendini, inoltre, ha scelto una poltrona piuttosto corpulenta e ingobrante, ma la livrea puntinista, di immillate toccature, con la quale la riveste agisce sui suoi volumi quasi smaterializzandoli; rendendone vaghi i contorni la alleggerisce, cosicché, guardandola, pare quasi di vederla galleggiare nello spazio, oppure mimetizzarsi con un prato, come se ci si imbattesse in lei all’improvviso, in una bella mattina di sole, passeggiando lungo “La strada di Swann”, alla ricerca del tempo perduto.

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Sul crinale del kitsch al limite del sublime
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La caffettiera Conica di Aldo Rossi

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Tea&Coffee Piazza” è il nome del progetto varato nel 1979 da Alessandro Mendini che, appena nominato direttore artistico della neonata collezione di Officina Alessi, ha voluto coinvolgere architetti di fama internazionale nell’ideazione di pezzi di un set da tè e da caffè. L’intento era quello di far sì che architetti “puri” si impegnassero in una ricerca personale intorno ad oggetti di uso quotidiano, così come era avvenuto nella mitica stagione del Bauhaus o in quella dorata del design italiano del secondo dopoguerra.

Tra i prescelti figurava anche Aldo Rossi (1931-1997), uno dei maggiori architetti del novecento, primo vincitore italiano del Premio Pritzker, il Nobel per l’architettura. E Aldo Rossi accettò la sfida di eseguire interventi creativi su micro-scala affrontandoli con il rigore metodologico e lo slancio poetico-evocativo che caratterizzavano tutti i suoi interventi architettonici, non meno di quelli sulla macro-scala metropolitana. 

 

Così, dopo un servizio da tè e caffè piuttosto particolare, racchiuso in un vassoio coperto che ha la foggia di un tempietto di vetro, se non addirittura quella di un tabernacolo laico (simile a quelli che ospitavano gli antichi Lari domestici nelle domus romane) per officiare il rito ospitale del caffè, nel giro di pochi anni, hanno visto la luce ben quattro caffettiere da lui progettate: la Conica, nel 1984; la Ottagonale, nello stesso anno (oggi rarissima da trovare perché andata fuori produzione); la Cupola, nel 1988 e la caffettiera-infusiera 9094, nel 1990.

Nella sua lunga carriera, Aldo Rossi ha poi affrontato parecchi altri temi di design, come ad esempio quello di armadi, di sedie, di poltrone, di divani, di orologi, di penne (progettati per Alessi, Artemide, Longoni, Molteni, Unifor etc.), ma è stato senz'altro quello della caffettiera ad affascinarlo maggiormente. Il motivo va rintracciato nel fatto che la sua forma svettante e la sua “pianta centrale" sono assimilabili a edifici turriti in miniatura, o a campanili, oppure a silos, o ai fari dei porti, o ancora ai tralicci urbani per antenne e altro, insomma a tutte quelle emergenze architettoniche che si innalzano verticalmente sul paesaggio urbano. Ma riecheggia anche le forme archetipiche del costruito tradizionale italiano, non meno che di quello storico, così ricorrenti nella poetica progettuale di Aldo Rossi, al punto che non vi è un suo solo intervento (o suo mirabile disegno) in cui non compaiano, in una tipologia oppure nell'altra, vigili custodi, quasi sentinelle di una intrinseca classicità. A volte, a caratterizzarle sono coperture a cupola –  emisferiche, ribassate, archiacute, paraboliche – con o senza lanterne, oppure tetti variamente cuspidati. 

In proposito, così ha scritto lui stesso: 

 

“La caffettiera, tra gli altri recipienti, o apparecchi domestici, si presta particolarmente a diverse trasposizioni, ed analogie con gli edifici e le forme dell’architettura. Particolarmente con cupole, campanili, minareti e non è quasi mai separata da una certa aria o stile orientale o più particolarmente turchesca nel senso settecentesco. È indubbio ma la sua presenza nelle composizioni di interni o nature morte conferisce una solidità dell’immagine che avvicina la composizione al paesaggio e particolarmente al paesaggio urbano dove predominano torri, cupole ed edifici diversi.”

 

Aldo Rossi, la caffettiera Conica, Alessi, 1984; a destra: disegno acquerellato di caffettiera con emergenze architettoniche urbane, da cui si evince il profondo interesse dell’architetto per la pittura Metafisica, soprattutto per quella di De Chirico con le sue Piazze d’Italia.
 

Aldo Rossi, disegni di caffettiere. A sinistra le parti componenti della Conica; china su carta. I disegni rappresentano una parte importante dell’opera di Aldo Rossi


Quando, quattro anni fa, nella casa-museo Testori a Novate Milanese (Milano) è stata allestita la mostra Aldo Rossi. L’idea di abitare,è stato come aver realizzato un rendez-vous immaginario fra l'architetto e lo scrittore, così in sintonia fra loro, sebbene quand’erano in vita non si fossero mai incontrati, si sa però che si stimavano reciprocamente a distanza, sia sotto il profilo intellettuale che artistico. Vi erano esposti disegni e modelli di Rossi, con fotografie di Gabriele Basilico, Luigi Ghirri, Luca Andreoni, Marco Introini, Antonio Ottomanelli. A latere della rassegna, la cucina della casa era stata trasformata per l'occasione nella stanza delle caffettiere, dedicata all’esposizione di quelle progettate dal maestro milanese per Alessi. E questo è stato davvero un bel coup de théâtre, come se proprio Giovanni Testori in persona avesse deciso di invitare il noto architetto a prendere un caffè a casa propria. E ci sta, perché di teatro si sono sempre occupati entrambi da veri protagonisti, se pure in ambiti differenti, ma con la medesima idea di ‘realismo e poesia'.

 

Novate Milanese, Casa Testori, fotografie dell’allestimento della stanza delle caffettiere, parte della mostra Aldo Rossi. L’idea di abitare, 2013/2014; insieme alle altre caffettiere è visibile il “tempietto”, il suo primo progetto per “Tea&Coffee Piazza” di Alessi. Dal sito di Casa Testori.


Delle caffettiere rossiane, è senza dubbio la Conica la più famosa e anche quella di maggior successo: una vera icona del design degli anni ottanta. Si tratta di una macchina da caffè in acciaio inossidabile 18/10 lucido con il fondo in rame, composta da un cilindro, diviso in due parti, che ne costituisce il corpo, e da un cono ad esso sovrapposto come coperchio – da cui le deriva il nome – culminante in una minuscola sfera. Questo oggetto di design, inoltre, evoca nella sua forma rigorosa e al contempo lirica quella del Teatro del Mondo, che Rossi aveva realizzato per la Biennale di Venezia soltanto qualche anno prima e nel quale si era già inverata quella dialettica tra il contemporaneo e l’antico, tra la realtà fisica e la metafisica, tra il concreto e l’astratto, tra ciò che è cosale e ciò che è poetico, tra ragione e passione da lui sempre auspicata e che ne ha caratterizzato la ricerca personale e progettuale per tutta la sua vita.

 

Aldo Rossi, la Conica, 1984, disegni.


A proposito del nome Conica attribuito alla caffettiera, così ne ha scritto il suo autore:

È inoltre ovvio che non ci sfuggono, come non sfuggiranno al lettore, le analogie tra la forma e la sua denominazione. Si potranno così costruire diverse combinazioni di cui la più facile, ma non la più ovvia, è quella tra ‘la conica’ e ‘laconica’. Notoriamente il termine laconico deriva da Laconia, o dagli spartani da cui nacque il parlare stretto, serrato, conciso, diretto, detto appunto “stile laconico” e che i latini tradussero in “paucis verbis” o “brevitas”. Resta comunque al lettore di ampliare questa ricerca, per esempio all'ipocausto laconico, che era stanza caldissima (non dissimile dalla caldaia di una caffettiera) o meglio di dimenticare tutte queste osservazioni e variazioni usando e maneggiando l'oggetto molto semplice della caffettiera.”

 

Si corre il rischio di essere costretti anche a pensare, a riflettere, se si vuol prendere un caffè con uno degli architetti più colti della storia recente, uno che aveva Palladio e Louis Étienne Boullé nella testa, la poesia nel cuore e l'occhio civilmente puntato sulla realtà, anche quando progettava una semplice caffettiera.

Sottotitolo: 
Dieci oggetti per l'estate
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Occhiello: 
Il caffè dell’architetto
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